DI GIOVANNI VACCA
Caro Francesco, la memoria annuale di quel drammatico 16 agosto di sette anni fa, quest’anno mi spinge a scriverti una lettera aperta.
La scrivo a te senza alcuna pretesa che tu possa leggerla e nemmeno usando quella espressione così poco abitata dalla speranza che tante volte leggo qua e là, “ovunque tu sia”.
Già, io so benissimo dove sei.
Sei costantemente negli occhi, nella mente e nel cuore di chi ti ha amato, di chi ti ha generato alla vita, ma anche di chi ha avuto la gioia di amarti. E poi, per quanto mi riguarda continui ad essere nel cuore di Dio che prima ancora di noi ti ha amato e, dunque, continua a farlo.
No, Francesco, non è il problema del dove tu sei, ma, vedi, il problema è dove siamo noi, dove è il nostro cuore, e verso dove va la nostra esistenza. E allora, mi perdonerai se più che una lettera a te, approfitto di questo ricordo per farmi provocare dalla tua vita di giovane ventunenne che guardavi al mondo con gli occhi limpidi e curiosi di un esploratore e soprattutto con il cuore gonfio di passione e di amore per le cose belle della vita.
Sai, si sono concluse da pochi giorni le olimpiadi di Tokio e io non ho potuto fare a meno, in questi giorni di immaginarti sveglio di notte e a dormire di giorno fino a tardi, perché non ti saresti perso una gara di questi magnifici giochi.
Ti confesso che io non sempre ci sono riuscito, pur volendo, a guardarle tutte con gli stessi occhi con cui ti osservavo fiero nel guardare le olimpiadi del 2012 a Londra. Sono certo che quell’anno ha consacrato un amore bello, puro, vero per lo sport, per tutto lo sport oltre il calcio.
Nelle mattine e nelle sere in cui passavo da Santo Spirito tu eri lì a guardare qualsiasi cosa indipendentemente dall’interesse di una medaglia italiana così come dozzinalmente ho fatto io. Ma il tuo sguardo era ed è più bello del mio. Di sicuro.
E per questo, i tuoi occhi vividi sono sempre una provocazione per me. E per questo ti ringrazio.
Vedi, ora mi sto facendo abitare dalla nostalgia dei ricordi, tradendo lo scopo di questa lettera che sì, è indirizzata a te, ma non avrebbe alcun senso se non fosse rivolta prima di tutto a me e poi a quanti leggendo questa lettera potranno nel tuo ricordo convertire lo sguardo.
Sai, ne abbiamo particolarmente bisogno in questo tempo in cui lo sguardo è stato privato della sua parte più importante: lo stupore! Quello stupore che, all’inizio della mia età giovane/adulta, hai contribuito tu a sviluppare.
È lo stupore di uno zio rimbambito di fronte ad un piccolo moccioso con lo sguardo arguto e mai stanco di imparare. È lo stesso stupore che guardo con grande felicità negli occhi di alcuni giovani zii che spesso incontro nella mia vita. Quel tuo sguardo di meraviglia io non lo dimenticherò mai.
Però consentimi, Francesco, oggi siamo dentro un mondo di sguardi spenti che non riescono nemmeno più ad indignarsi difronte a quei numerosi incendi che oltre a rubarci la bellezza che deriva dalla visione di alberi secolari, ci stanno togliendo l’ossigeno che generosamente ci restituivano in un mondo sempre più inquinato e ormai quasi irrimediabilmente destinato al suo definitivo declino.
Sento che mi stai suggerendo qualcosa a cui non avevo fatto caso nel mio ultimo periodo. Hai ragione. Ho usato l’avverbio “quasi”. E così ancora una volta il tuo sguardo che vedeva lontano, oltre l’oceano, mi ha suggerito che non è tutto perduto, e che se è vero che questa lettera è destinata a noi più che a te, è necessario dare corpo a quell’avverbio per correggere questa curva.
Lo dobbiamo a quelli che hanno gli occhi come i tuoi. Lo dobbiamo a tutti i figli, i nipoti che hanno il diritto allo stupore. Ci proverò, te lo prometto. E ogni volta che riuscirò a farlo, sappi che saranno stati i tuoi occhi a incoraggiarmi a guardare oltre.
Amato Francesco, in questi giorni per una serie di motivi ho ripreso in mano il libro “chi non muore si rivede”. La dedica riporta la data del 14 novembre 2014, cioè tre mesi dopo quel maledetto incidente che ti ha strappato al nostro affetto e soprattutto al tuo futuro. È inutile dirti che i segni di quella ferita sono ancora indelebili e visibili in tutti coloro che ti hanno amato.
E non è vero che il tempo aiuta a dimenticare. Il tempo serve ad elaborare. A provare a dare un senso. Il tempo non riesce a chiudere il rubinetto delle nostre lacrime, ma senz’altro ci aiuta ad indirizzarle non indistintamente su terreni aridi, ma verso terreni fertili perché tu possa continuare a vivere.
Sì, perché di questo si tratta. Perché il tempo, con molta fatica, e non ancora del tutto, ci sta aiutando a lasciarti andare. A non trattenerti nel nostro dolore sordo, ma a farti vivere nel rispetto della vita di ognuno, nel desiderio di provare ad essere migliori ma soprattutto nel provare a migliorare questo nostro mondo come senz’altro stavi tu stesso sognando di fare anche attraverso i tuoi studi che, attraverso lo strumento della lingua, miravano ad unire i popoli con l’aiuto di chi, interpretando, cerca di favorire il dialogo e la comprensione, piuttosto che l’incomprensione e la costruzione di muri.
Il tuo futuro lo avevi disegnato così. Ne avevamo parlato qualche giorno prima di quel ferragosto così triste. E allora non possiamo rischiare di perderti ancora una volta. Non possiamo rischiare di uccidere nuovamente i tuoi sogni. Nonostante tutto. Purtroppo i motivi per desistere ce ne sono a frotte. Persino un albero che avevamo piantato in questa città per ricordare questa tua vitalità è stato tagliato portando a tutti noi una amarezza indicibile.
C’è qualcosa che mi ha bloccato per qualche istante, e alcuni cattivi pensieri che stavo per scrivere, credo di averli dimenticati. E un invito proveniente dal cuore mi ha invitato ad alzare lo sguardo. Davanti a me, dentro la cornice di un cielo limpido, si staglia rigoroso l’ulivo che zia Rosanna, ha voluto piantare all’ingresso della nostra casa estiva, perché chiunque varcasse la soglia della nostra accoglienza potesse ricevere la tua benedizione di speranza, e attraverso te il nostro benvenuto. Ancora tu, ne sono certo, hai corretto il verso di questa lettera.
E sono 2. 2 a 0. Mi arrendo. Io con le mie parole a provare di fare sproloqui.
Tu con due gesti a correggermi invitandomi alla realtà. Che è più dell’idea. Ma forse è giusto così. In fondo se è vero che chi non muore si rivede, il modo migliore di dimostrarlo è proprio quello di “farsi vedere” attraverso gesti di vita. Che magari passano anche attraverso degli scappellotti che fai bene a darmi e che considero come una benedizione sulla mia povera vita che tante volte, perde freschezza e slancio per adagiarsi al lamento e allo sconforto.
Grazie Francesco, per queste bellissime due ore che mi hai dedicato. Pubblicherò questa lettera perché in fondo credo che questo scritto più che mio provenga dalle fauci profonde della tua bellissima speranza che in questi sette anni non si è mai esaurita.
Continueremo a ricordarti così. Con questa vitalità. E se ci scapperà una lacrima, concedici di farlo sapendo che ci aiuterà ad innaffiare quell’ulivo che porta il segno della tua benedizione.
Grazie Francesco. Chi non muore si rivede. Continuo a volerti un gran bene.