Belfast. La capitale dell’altra Irlanda, quella del Nord. Quella che rimase sotto il governo britannico, al contrario della parte meridionale dell’isola.
Belfast è tante cose, tra cui la città del Titanic. Fu dal suo porto che la nave partì, senza mai arrivare, verso gli Stati Uniti. La sua storia è ben narrata nel museo dedicato alla tragedia del transatlantico. Vi si illustra la storia della città partendo dall’avvento dell’economia industriale, che portò allo sviluppo dei trasporti navali. Fino a quel maledetto urto con l’iceberg.
Ma per chi è nato prima degli anni ’90, Belfast è principalmente sinonimo di guerra, di terrorismo, di bombe, di morte. Per decenni, infatti, è stata teatro di scontri, violenze, nell’ambito del conflitto nordirlandese, che vide contrapposti cattolici e protestanti, separatisti desiderosi di unirsi con l’Irlanda e unionisti decisi a restare sotto la Corona inglese. Un conflitto letto sui giornali, ascoltato dalle cronache televisive, narrato da film, libri e canzoni.
«Bottiglie rotte sotto i piedi dei bimbi, corpi sparsi ai lati del vicolo cieco. Ma non darò retta al richiamo alla lotta. Mi mette con le spalle al muro» cantavano nell’83 gli U2 nella canzone Sunday bloody sunday, ricordando gli eventi di quella che viene ricordata come “bloody Sunday”, la domenica in cui l’esercito inglese sparò sulla folla riunita pacificamente per manifestare a favore dell’indipendenza. L’episodio si consumò a Derry, non a Belfast, ma il conflitto è lo stesso. Lo stesso raccontato anche dai Cranberries in “Zombies”, in cui la metafora degli zombie è usata per indicare le persone ormai assuefatte da quella violenza che causò oltre 4mila morti e che non restò relegata nell’Ulster, ma colpì anche al di fuori dei confini nordirlandesi. La canzone, infatti, fu scritta dopo un attentato dell’Ira compiuto in Inghilterra, che costò la vita anche ad un bambino.
Ormai la guerra è conclusa da anni. Belfast è visitabile in sicurezza. Ormai da anni l’Ira ha dichiarato conclusa la lotta armata (non quella politica, portata avanti da partito Sinn Fein) e ha gettato le armi. Ma le cicatrici di un conflitto durato oltre 30 anni ci sono e sono visibili ancora oggi.
Belfast, forse, non è bella quanto Dublino (parere personale), ma visitarla significa ripercorrerne la sua storia travagliata, difficile. Dallo stile decisamente più inglese rispetto a Dublino, è molto meno affollata. Soprattutto la sera, quando i negozi chiudono e le persone si rinchiudono nei locali. In giro sono pochissime le persone. È un mortorio. Forse anche per effetto del coprifuoco imposto dall’esercito negli anni più bui della violenza, quando le fazioni in lotta piazzavano bombe, si abbandonavano a violenze sommarie, seminavano il terrore.
Ma per comprendere pienamente la storia di Belfast e dell’Irlanda del Nord è necessario visitare i quartieri attorno a Shankill Road e Falls Road. Il primo è abitato prevalentemente da protestanti, filoinglesi, e funse da base per l’Uvf (Forza dei Volontari per l’Ulster) e l’Uda (Associazione per la Difesa dell’Ulster), gruppi fedeli a Londra, spesso colpevoli di brutali violenze verso la popolazione filoirlandese e persino attentati terroristici su suolo irlandese (anche Dublino). Il secondo quartiere è abitato prevalentemente da filoirlandesi, cattolici e fu il quartier generale dell’Ira (Esercito Repubblicano Irlandese) che si batteva per l’indipendenza da Londra e per l’unificazione dell’Irlanda, anche con lo strumento del terrorismo, con bombe e attentati verso i nordirlandesi filoinglesi. E anche nelle città dell’Inghilterra. I quartieri erano divisi dal “Muro della Pace”, i cui varchi erano presidiati dall’esercito e che serviva per evitare violenze da parte delle fazioni in lotta. Soprattutto quelle degli irlandesi, verso cui il pugno era decisamente più duro rispetto ai filoinglesi, su cui volentieri si chiudeva un occhio.
Entrambi i quartieri sono tappezzati di murales che celebrano le rispettive fazioni, i caduti in battaglia, i personaggi chiave della lotta. Personaggi come Bobby Sands, morto in carcere a seguito di uno sciopero della fame avviato come protesta per le condizioni in cui erano costretti a vivere i detenuti irlandesi. Lungo le strade si notano memoriali che celebrano le vittime. Come quello in memoria dell’attentato al bar Bayardo, fatto dall’Ira, che uccise cinque persone, tra cui quattro civili e un miliziano lealista.
Visitare questi quartieri è come leggere due libri sullo stesso argomento, ma con punti di vista radicalmente diversi. Ogni parte in lotta indica gli avversari come nemici dell’Ulster, terroristi, assassini. Da parte inglese, l’Ira è paragonata all’Isis, ad Al Qaeda e, nel memoriale delle vittime del Bayardo, si rimprovera anche il Partito Nazionalista Scozzese per non aver condannato le violenze degli irlandesi. Da parte irlandese, invece, si accusano esercito e miliziani lealisti di brutali violenze anche verso civili, di rappresaglie, si accusano di togliere la libertà al proprio popolo e si inneggia ai miliziani dell’Ira.
Ogni quartiere reclama la sua identità contrapposta all’altro. Se nel quartiere inglese le strade e le case sono piene di bandiere del Regno Unito sventolanti, di inni alla Corona inglese, quelle del quartiere irlandese pullulano di bandiere con il tricolore della Repubblica di Irlanda, di inni alla libertà.
Traspare l’odio che per decenni ha insanguinato le strade. Del resto, è vero che le violenze (escludendo sporadici episodi) sono concluse, ma il passo dalla lotta politica a quella armata non è certo molto lungo.
Una riflessione, tuttavia, è d’obbligo, rileggendo la storia del conflitto nordirlandese. Come è normale che sia, nessuna delle due parti in lotta fu esente da crimini agghiaccianti, da violenze verso civili. In guerra nessuno è innocente. Violenze da condannare in ogni caso, a prescindere dalla causa, giusta o sbagliata che sia. Ma verso gli irlandesi Londra si mostrò decisamente più dura, nonostante i lealisti non furono certo agnellini, ma si macchiarono di rappresaglie sanguinose quanto quelle dell’Ira e di attentati anche nella Repubblica di Irlanda. Anzi furono proprio le violenze degli estremisti inglesi, verso chi protestava contro le discriminazioni, a dare il via alla lunga scia di sangue che durerà nei decenni a venire. Il terrorismo da parte irlandese fu una risposta (ciò non valga da giustificazione, perché se è, purtroppo, normale che, in guerra, i militari siano bersagli, non è giustificabile in alcun modo la deliberata violenza verso i civili). Tuttavia, Londra, come già detto, chiuse spesso un occhio. O entrambi. Anche le divisioni dell’esercito inviate a contrastare la violenza erano spesso composte da soli protestanti e, dunque, più duri con gli irlandesi e con la mano tenera verso gli inglesi.
Per avere un’idea del clima di odio dell’epoca non solo in Irlanda del Nord, ma anche nel resto del Regno Unito, si può guardare l’ottimo film “Nel nome del padre”, la storia di Gerard Patrick Conlon, di suo padre Giuseppe e di altri tre ragazzi di Belfast. Furono arrestati in seguito ad un attentato dell’Ira a Guilford in cui morirono civili inglesi. Ma le autorità erano più interessate a trovare un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica, che a trovare la verità. E così i Conlon e gli altri furono rinchiusi tanti anni in carcere (l’anziano Giuseppe morì dietro le sbarre), senza essere in alcun modo responsabili.