Occhio a queste parole forti. “Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio, il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte. Il fallito attentato diventa, dunque, l’occasione per quello che Mussolini definisce, in un telegramma a Graziani del 20 febbraio, «inizio di quel radicale repulisti assolutamente (…) necessario nello Scioà». E il giorno dopo, sempre il Duce, telegrafa: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi”.
Le scrive Haruld J. Marcus, uno storico di chiarissima fama mondiale. E fa capire, senza infingimenti, una delle pagine più terribili della storia d’Italia. Che vorremmo seppellire per sempre – chiaramente più di qualcuno ha cercato di cancellarla – ma non si può. Forse non si deve. Non perché dobbiamo mettere sotto il tappeto il (falso) mito degli italiani brava gente, ma imparare quello che siamo stati. E cosa siamo stati capaci di fare in Etiopia durante la nostra invasione. Cose terribili. E altre ancora più terribili.
Etiopia, allora. La nostra colonia nella campagna d’Africa di fascista memoria. Febbraio 1937. Da poco tempo siamo entrati da invasori, e abbiamo pure deciso di far riecheggiare un altro storico, un po’ più datato, che si chiama Tacito. “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, scriveva in una delle sue opere più famose. Altrimenti detto barbarie allo stato puro.
Senza motivazione, chiaramente. Sì, senza motivazione. Perché la motivazione è diversa dal pretesto. E quelle parole truci e sanguinarie dell’incipit partono da un pretesto.
Il calendario dice 19 febbraio. Addis Abeba, capitale dello stato africano. In occasione della nascita di Vittorio Emanuele, primogenito di Umberto II di Savoia, Rodolfo Graziani, capo dell’esercito nostrano e persino Vicerè d’Etiopia dà ordine di preparare una cerimonia pubblica. Tutto sembra filare liscio, ma all’improvviso due intellettuali eritrei lanciano una serie di bombe a mano uccidendo quattro soldati italiani, ferendone altri. Ma la cosa seria è che tra i feriti c’è anche lui, proprio il Vicerè, colpito da un numero elevatissimo di schegge.
Graziani non ci mette molto a organizzare la reazione. Dura. Feroce. Che va avanti per giorni. Che non vede cadere solo al suolo tanti presenti in quella folla che cercava di fuggire, ma persino le chiese.
“Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba – scrive il giornalista del “Corriere della sera” Ciro Poggiali, inviato della testata in Etiopia – in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengon fatti arresti in massa. Mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta”. E ancora: “Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente. Per tutta la notte, con un accanimento anche più feroce che nella notte precedente, si continua l’opera di distruzione dei tucul. Spettacoli da tragedia delle immense fiammate notturne. La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alle masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione. Gli uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive. Episodi orripilanti di violenze inutili. Mi narrano che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato dalle squadre dei randellatori”.
E siccome per un repulisti che si rispetti le cose vanno fatte per bene, in pochi dovevano salvarsi. Circa 700 indigeni, rifugiatisi nell’ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa.
Nonostante la carneficina, gli attentatori non si trovano. Su ordine di Graziani alla fine di febbraio vengono fucilate decine di notabili e ufficiali etiopi, e allo stesso Vicerè frulla per la testa un’altra idea. Radere al suolo la parte vecchia della città di Addis Abeba e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento, ma è una cosa troppo folle anche per il Duce, che lo fa desistere.
Finito qua? Niente affatto, perché le esecuzioni proseguono anche a marzo con la fucilazione di cantastorie, indovini e stregoni di Addis Abeba e dintorni. E c’è pure la deportazione in Italia, fino a novembre dello stesso anno, di ben 400 abissini, tra cui importanti personaggi pubblici. E intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala.
Non si conosce il numero esatto delle vittime. Fonti etiopi parlano di 30mila vittime, che scendono a soli 3mila o forse 6mila secondo la stampa straniera del tempo.
Ma, cifre a parte, sono ancora due le cose che mettono i brividi. Da un lato sono le idee di Graziani, secondo il quale quella effettuata era da annoverare come la tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia.
Dall’altro quello che accade nel dopoguerra. Nulla. Perché, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano è stato mai punito per questi e per altri massacri.