Giancarlo Siani era un giornalista “abusivo”, dove abusivo, però, ha un significato colmo di rispetto.
Vuol dire fare una dura e utile gavetta nel cuore della notizia, divenendone quasi parte. E la notizia, quindi l’unica cosa che davvero vale la pena raccontare, faceva rima con Torre Annunziata, e la sua camorra, i suoi clan di guerra, gli accordi, gli intrecci più o meno illeciti tra politica e criminalità organizzata. E lui, nel suo lavoro quotidiano di cronista, faceva proprio questo.
Sempre questo.
Una resistenza civile alla camorra, perché nel suo cuore, nel suo animo e nella sua idea di avere le scarpe consumate albergava il seme della denuncia e della scrittura come mezzo di lotta.
E, ovviamente, è stato ucciso per questo. Correva il 23 settembre 1985, una sera di 32 anni fa. Si trovava nella sua macchina a due passi da piazza Leonardo, nel quartiere Vomero del capoluogo campano, quando è raggiunto da dieci colpi di pistola, tutti alla testa, da due killer a bordo di una moto. Quella stessa mattina, Siani aveva chiamato il suo ex direttore perché avrebbe voluto rivelargli “cose che sarebbe meglio dire a voce”. Non ha avuto modo e tempo di farlo, però.
Ma chi era davvero Giancarlo Siani? Basta un solo pensiero per capirlo. Questo: “Da sempre sono esistite e continuano a esistere due categorie di giornalisti: i Giornalisti Giornalisti e i giornalisti impiegati. La prima è una categoria così ristretta, così povera, così “abusiva”, senza prospettiva di carriera, che non fa notizia, soprattutto oggi. La seconda, asservita al potere dominante, è il giornalismo carrieristico, quello dello scoop e del gossip, quello dell’esaltazione del mostro e della sua redenzione”.
Oppure quest’altro: “Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere giornalista è qualcosa di altro. E’ sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno”.
E fin dagli esordi, il giornalista napoletano, nato e cresciuto proprio al Vomero, dimostra di avere una schiena perennemente dritta.
Partecipa ai movimenti studenteschi del 1977, e dopo essersi iscritto all’Università, comincia a collaborare con alcuni periodici locali.
Scrive i primi articoli per “Il Lavoro nel Sud”, mensile della Cisl, e quindi inizia a lavorare come collaboratore da Torre Annunziata per il quotidiano fondato da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao.
Occupandosi, ovviamente, di cronaca nera e quindi di camorra e di camorristi e, in particolare, dei loro rapporti con i politici locali per l’assegnazione degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree coinvolte dal terremoto dell’Irpinia del 1980.
Grazie ai suoi pezzi, quasi tutti bollentissimi, sale di grado, e nel giro di un anno diventa un collaboratore di punta del giornale.
Ma, proprio a causa delle sue denunce e inchieste, viene designato come nemico della manovalanza campana.
Siani inizia a morire il 10 giugno 1985, il dì in cui si permette di scrivere che l’arresto del boss Valentino Gionta era stato reso possibile da una “soffiata” che esponenti del clan Nuvoletta fecero ai carabinieri.
Per intenderci. Nel suo scritto, il giovane cronista accusa proprio la famiglia Nuvoletta, in accordi addirittura con Salvatore Riina e i corleonesi, di voler vendere alle forze dell’ordine Gionta, in quanto era diventato troppo potente e incontrollabile, nonostante sia partito come un semplice pescivendolo.
Tre mesi dopo il suo articolo, Siani viene ammazzato, e la decisione di farlo fuori pare sia stata presa proprio il giorno di Ferragosto.
Doveva morire, però, fuori da Torre Annunziata, e così è stato.
Per conoscere i nomi di killer (Ciro Cappucci e Armando Del Core) e mandanti (i fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta, e Luigi Baccante) ci sono voluti ben 12 anni.
Il problema, però, è che il cerchio non sembra ancora essersi chiuso. Nel 2014, infatti, il giornalista Roberto Paola pubblica un libro nel quale si dice convinto che a sparare al giovane cronista campano siano stati altri.
Di sicuro c’è solo che è morto, insomma?