Guardando il calendario delle ricorrenze dei prossimi giorni, è chiaro che l’occhio cade subito sul 12 dicembre. A Milano viene messa una bomba all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana.
Devastazioni. Morti. Feriti. È il 1969. Primo attentato della Strategia della tensione, che terrà sotto scacco il Belpaese per oltre una decina d’anni, e che avrà il culmine con un’altra bomba, quella alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980.
In realtà, però, due giorni prima, accade un altro episodio che non va sottovalutato. Per un primissimo periodo passato in secondo piano o – volutamente o meno – derubricato, ma guai a dimenticarlo.
Da Milano ci si sposta all’estremo Sud. Siamo a Palermo, ed è la sera del 10 dicembre. Si consuma quella che è passata alle cronache come la “strage di viale Lazio”. Altrimenti detto il primo, sanguinoso, regolamento di conti all’interno di Cosa Nostra. O, ancora meglio, la prima mattanza eseguita dai corleonesi guidati da Salvatore Riina.
Negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, in viale Lazio appunto, in un vero e proprio torrente di fuoco, perdono la vita il pregiudicato Francesco Tumminello, il manovale Salvatore Bevilacqua, il custode Giovanni Domè – la loro unica colpa è stata quella di trovarsi in quei luoghi a quell’ora – Calogero Bagarella, il potentissimo boss Michele Cavataio, che lì aveva il covo.
L’obiettivo numero uno era proprio quest’ultimo, detto il “Cobra”, capo della famiglia dell’Acquasanta.
Ma perché Cavataio doveva morire? La spiegazione arriva dagli anni precedenti. È considerato l’autore materiale della Prima guerra di mafia, scoppiata a principio degli anni ’60, e conclusasi – secondo i principali studiosi ed esperti di storia della Mafia – proprio con la sua morte.
Sono gli anni iniziali del sacco di Palermo, quindi di quel boom edilizio che colpisce e sconvolge il capoluogo siciliano, che ha Salvo Lima come sindaco e Vito Calogero Ciancimino come assessore ai Lavori Pubblici. Due esponenti della Democrazia cristiana vicini alla corrente di Amintore Fanfani.
Accade qualcosa di strano. Piano regolatore completamente stravolto, un numero incredibile di licenze edilizie concesse, tantissime costruzioni in style Liberty distrutte.
A costruire – ovviamente con prestanome – sono i boss dell’epoca. Stefano Bontate, Michele Cavataio, Salvatore La Barbera (il più legato ai corleonesi e a Ciancimino stesso), e altri. Cavataio, però, per accaparrarsi la fetta di appalti più alta, inizia a creare panico e scompiglio. Mettendo tutti contro tutti.
È la mente della strage di Ciaculli, il 30 giugno 1963. Sette uomini delle forze dell’Ordine muoiono saltando in aria nel momento in cui trovano e aprono il bagagliaio di un’Alfetta, piena zeppa di tritolo.
Nel frattempo, scatta la prima guerra di mafia. Tanti mafiosi vengono assassinati, e altrettanti arrestati. Tra questi proprio Luciano Liggio e Salvatore Riina, che però saranno assolti nel 1969 a Bari per insufficienza di prove.
Dopo l’assoluzione, quindi, i capimafia si organizzano e Cavataio va punito.
Palermo, 10 dicembre 1969. Un commando composto da Salvatore Riina – non si è mai saputo se ha partecipato alla strage materialmente o resta in macchina – Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Emanuele D’Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso, travestito da agenti di polizia, arriva in viale Lazio per uccidere il super boss. Pare che le indicazioni fossero che lui soltanto dovesse morire, in realtà però, uno del commando, inizia a sparare su alcuni impiegati disarmati molto probabilmente impossessato dalla paura. È l’inizio della mattanza.
L’ultimo a cedere è Cavataio, che prima di essere ucciso – testa fracassata dal calcio del fucile di Provenzano e poi finito con un colpo di pistola alla testa – ha il tempo di uccidere Calogero Bagarella, il cui cadavere fu portato via subito dopo la strage e portato chissà dove.
Le condanne arrivano qualche anno dopo. Nel 2009. Provenzano e Riina sono condannati all’ergastolo.