“I ribelli caduti in campo di battaglia si dividono in tre categorie. La prima, coloro che cercano la morte gloriosa perché le generazioni future cantino le loro gesta, un po’ come Ettore. Poi ci sono coloro che perdono la vita perché sconfitti in una battaglia che pensavano di poter vincere o che valeva la pena di combattere; e stiamo parlando di migliaia e migliaia di rivoluzionari, partigiani, rivoltosi, da Spartaco in giù. Infine, la terza categoria sono persone che hanno condiviso con il corpo e con la morte una rivolta delle cui ragioni e tempistica non erano convinti, ma l’hanno fatto per lo spirito di lealtà nei confronti dei compagni di lotta e delle proprie biografie, e viene in mente Rosa Luxemburg, assassinata a Berlino nel gennaio 1919”.
Chi parla così è Wlodek Goldkorn, famosissimo scrittore polacco (il suo ultimo libro, “Il bambino nella neve”, è un successo mondiale), e per anni responsabile delle pagine culturali de “L’Espresso”. Che però aggiunge un altro significativo passaggio: “Poi c’è il caso di un medico argentino, Ernesto Guevara, insofferente nei confronti delle ingiustizie del mondo; invaghitosi dell’avvocato cubano Fidel Castro che voleva cacciare dal suo Paese Fulgencio Batista, dittatore al servizio delle mafie statunitensi. Una volta ottenuto lo scopo, il medico, insoddisfatto dei compromessi e privilegi che accompagnano inevitabilmente l’esercizio del potere, era andato a finire i suoi giorni in Bolivia, Paese confinante con il suo.
“El Che”, come lo chiamava tutto il mondo, era un ribello diverso, allora. Che ha fatto scuola. Che ha creato polemiche, positive e negative.
Che dopo 50 anni fa ancora scuola, perché è un mito intramontabile più forte di tutto. È il contrario dell’epoca dei sessantotini, nonché il rimpianto di quella generazione. Un’icona per i giovani della sinistra europea (e non solo), un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, talvolta svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.
“Ci sembra oggi – scrive sempre Goldkorn – un ribelle contro quello che i marxisti e i comunisti consideravano le ferree logiche della storia”.
Sono passati esattamente cinque decenni da quel 9 ottobre 1967, il dì in cui il gruppo antiguerriglia boliviano che lo aveva catturato il giorno prima a La Higuera, lo uccide, lo mutila, e lo seppellisce in un luogo talmente segreto che ci vorranno esattamente 30 anni per ritrovarlo.
Figlio di un ingegnere civile e di una donna molto colta, fondamentale per la sua formazione adolescenziale, inizia a far parlare concretamente di sé nel 1955, a soli 27 anni.
È in Guatemala, e il giorno in cui lo Stato dell’America centrale è invaso da parte delle forze mercenarie pagate dall’United Fruit, tenta di organizzare una resistenza popolare, ma nessuno gli dà ascolto. Qualche giorno dopo, invece, incontra in Messico Fidel Castro, con cui fin da subito scatta sintonia umana e politica.
All’epoca erano entrambi esuli, e si uniscono per liberare Cuba dal tiranno Fulgencio Batista. Sbarcano dopo un anno e, una volta rovesciato il regime, Che Guevara diventa ministro dell’Industria, e primo responsabile della ricostruzione economica dell’arcipelago dei Caraibi.
Nel 1967, il suo animo di perenne ribelle e rivoluzionario lo porta in Bolivia, dove, guarda caso, era scoppiata una rivoluzione, ma le forze governative lo uccidono senza pietà.
Ma dopo 50 anni è, per dirla alla Orazio, un monumento più duraturo del bronzo.
A Milano hanno pensato di dedicargli una mostra, visitabile dal 6 dicembre al 1°aprile 2018 alla Fabbrica del Vapore, mentre il “Financial Times”, un paio di giorni fa, ha dato voce a Gary Pardo Salmon, uno dei soldati che lo ha catturato l’8 ottobre 1967.
Dice questo su quei momenti: “Era depresso, del tutto demoralizzato. Vedeva la fine. Cinque dei suoi guerriglieri erano stati uccisi, non era contento di questo. Mi vide richiamare altri soldati per mettere in sicurezza l’area e disse: “Non si affanni capitano, è la fine. È finita”.
E come si può distruggere uno così?