Ls mattina del 21 luglio 1979, l’ultima della sua vita, Giorgio Boris Giuliano esce di casa in anticipo rispetto al solito, e soprattutto è solo.
Si reca al “Bar Lux” di via Di Biasi, nel pieno centro di Palermo, dove ordina un caffè. All’improvviso entra Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina, capo dei corleonesi, e gli spara alle spalle ben sette colpi di arma di fuoco. Uno, l’ultimo, lo trafigge alla nuca non lasciandogli scampo.
Sono appena le 8 di mattina, e il capoluogo siciliano conta già un’altra mattina di sangue. Un ennesimo cadavere eccellente.
Già, perché nella stagione della seconda guerra di Mafia, quella in cui la Sicilia diventa un crocevia fondamentale per lo smercio e il traffico di sostanze stupefacenti, soprattutto con gli Stati Uniti, e i Corleonesi iniziano la lunghissima e sanguinosissima scalata al vertice del potere criminale, quello di Giorgio Boris Giuliano è davvero un cadavere eccellente. Al quale si accompagneranno, qualche mese dopo, quelli di Cesare Terranova, Piersanti Mattarella e Gaetano Costa.
All’epoca era il capo della squadra mobile di Palermo. Ma limitarsi solo a questo è davvero riduttivo.
Era soprattutto un poliziotto che affrontava le indagini con metodi davvero innovativi e con grande determinazione. Inculcati sicuramente dai libri gialli e di storia, e da una lunga e fondamentale formazione in Cina e negli Stati Uniti, nell’Fbi e Dea.
Giuliano non si soffermava alle apparenze ma indagava fino in fondo. Era convinto che i fatti delittuosi che apparentemente sembravano isolati erano collegati tra loro. Soprattutto in una città come Palermo. Quella degli anni ’70, appunto. Ha introdotto, allora, un modo rivoluzionario, per l’epoca, il lavoro di squadra. Sistema che sarà ripreso, poi, da Rocco Chinnici per il “Pool antimafia”. Giusto per capirci.
Il suo gruppo è formato da Tonino De Luca, Paolo Moscarelli e Vincenzo Boncoraglio, ciascuno con un compito preciso e ben delineato così da non intralciarsi o scontrarsi nel corso delle indagini o delle operazioni.
In breve, brevissimo tempo, riesce a dare vita a una vera e propria mappatura delle famiglie mafiose, basandosi su omicidi nei vari quartieri e nelle periferie, oltre che a un archivio sui generis. Senza dimenticare che altra sua caratteristica era quella di allontanare dalla scena del crimine i cronisti, i poliziotti e chiunque non facesse parte della squadra.
E non è un caso, quindi, che il poliziotto nato a Piazza Armerina nel 1930 ha seguito tanti fascicoli caldissimi dell’epoca.
Come capo della squadra omicidi e quello della squadra mobile si è ritrovato ad indagare sui casi dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, del segretario provinciale di Palermo della Democrazia cristiana, Michele Reina, e del carabiniere Emanuele Basile, ucciso a Monreale due mesi prima della sua morte.
Senza dimenticare anche il caso del boss Giuseppe Di Cristina, ammazzato per volontà di Riina e Provenzano nel 1978, e secondo alcuni testimoni di giustizia uno degli assassini di Enrico Mattei.
Ma i fascicoli più scottanti – quelli che lo hanno portato alla morte – sono stati quelli sul traffico di stupefacenti sull’asse Sicilia-Stati Uniti.
Riuscendo a capire, molto presto, il collegamento tra famiglie mafiose dell’isola come Bontate, Spatola, Inzerillo, con i Gambino e altre famiglie di stesso rango negli Usa. Come dimenticare le due valigette contenenti 500mila dollari scoperte all’aeroporto Punta Raisi, frutto di un pagamento di una partita di eroina?
Purtroppo, però, non è riuscito a portare a termine le indagini, che però non si sono perse, per fortuna. Sono state alla base del lavoro compiuto da Gaetano Costa prima e Giovanni Falcone poi, ma soprattutto del Maxiprocesso del 1986.
Ed è stato lo stesso Paolo Borsellino a riconoscerlo nella richiesta di rinvio a giudizio.
Così scrivendo: “Deve (…) ascriversi ad ennesimo riconoscimento della abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso,a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima. Senza che ciò voglia suonare critica ad alcuno, devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.