Quella sera del 28 luglio 1985 è l’ultima di lavoro prima di andare in ferie.
Giuseppe Montana, per gli amici “Serpico”, si trova a Porticello, località marinara non lontana da Palermo, in compagnia di fidanzata e amici.
A un certo punto decide di portare in cantiere il proprio motoscafo, che mostra di avere un po’ di problemi elettrici. Mai scelta è stata più fatale: due killer lo colgono di sorpresa e da solo, sparandogli quattro colpi di arma da fuoco – una 357 Magnum e una calibro 38 con proiettili ad espansione – che lo lasciano a terra in una pozza di sangue a soli 33 anni.
Come tanti altri suoi colleghi ai quali Cosa Nostra non ha lasciato scampo.
Montana era il commissario della Squadra mobile di Palermo. Uno che amava, in modo serio, zelante e preciso quello che faceva, pur sapendo che era rischioso. Soprattutto se compiuto come lui.
Era “Serpico”, per l’appunto. Uno stakanovista, un mastino, e dava la caccia ai mafiosi anche durante i giorni di relax e vacanza. Spinto da una convinzione: “Bisogna cercare in quel tratto di costa compreso tra Bagheria, Porticello, Casteldaccia, Termini Imerese. È lì che si nascondono decine di pericolosissimi latitanti. State pur certi che alla fine salteranno fuori grossi nomi”.
E infatti, ma questo lo si è scoperto soltanto dopo la morte, non aveva affittato una casa a Porticello per caso, ma proprio per tenere sotto controllo quella zona. Una delle più calde nella da poco finita seconda guerra di mafia, che aveva portato Salvatore Riina e i corleonesi a comandare la cupola.
Era arrivato a Palermo nel 1982, dopo la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa, e dopo che a Catania ha arrestato due boss molto vicini a Nitto Santapaola.
Non era, dunque, proprio uno sprovveduto.
Nel capoluogo siciliano, in pratica, ha cercato di portare avanti il lavoro che Boris Giuliano ha lasciato a metà: ricostruendo un quadro completo. Cercando i collegamenti con le altre organizzazioni criminali, specialmente negli Stati Uniti e in Campania. Provando a seguire le grandi piste internazionali che facevano pervenire in Sicilia quantità enormi di capitale.
Toccando con mano i punti nevralgici: i proventi del traffico di eroina e i grandi boss.
E lo ha dimostrato con l’arresto del boss Tommaso Spadaro, astro nascente del traffico di eroina, l’aver scardinato, cinque giorni prima di morire, un gruppo dedito ad affari illeciti di livello internazionale, e facendo catturare otto uomini di Michele Greco, detto “il papa”.
Diventando, tra l’altro, strettissimo amico di Ninni Cassarà, vicequestore di Palermo, e ucciso otto giorni dopo di lui. E comprendendo, fin da subito, che nessuno dei ricercati era lontano dal proprio quartiere, dai propri familiari, dalla propria cerchia di fidati uomini d’onore.
Le indagini per la sua morte sono arricchite da un episodio mai del tutto chiarito. Quasi subito è arrestato un giovane di 25 anni, un tale chiamato Salvatore Marino, di professione calciatore, che però in casa aveva una enorme quantità di denaro di dubbia provenienza e una maglietta sporca di sangue.
È accusato, allora, di far parte di quel commando che ha ucciso Montana. Portato in questura, è torturato e ucciso da alcuni agenti di polizia.
L’episodio viene subito a galla, finendo sui giornali e scandalizzando l’opinione pubblica. E ha fatto talmente rumore che l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, la sera del 5 agosto – il giorno prima della morte di Cassarà – ha rimosso i vertici di polizia e carabinieri di Palermo, mentre altri poliziotti sono stati arrestati.
Ma chi ha ucciso Montana, allora? Agostino Mannoia, fratello di Francesco Marino, pericolosissimo boss fatto arrestare proprio dal commissario, Giuseppe Greco, Mario Prestifilippo.
Secondo Francesco Marino, però, diventato poi collaboratore di giustizia, per l’uccisione di Montana un ruolo importante sarebbe stato giocato da un poliziotto corrotto, presente all’interno della stessa squadra mobile.