L’ultima puntata di questa storia tipicamente italiana (l’ennesima) si è consumata poche ore fa. Guarda caso in coincidenza suo con il 27esimo anniversario.
Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria ha fatto sapere, infatti, che molto probabilmente – attenzione, certezze non ve ne sono – è stata ritrovata l’arma con cui sarebbe stato ammazzato il protagonista di tutto questo: Antonino Scopelliti.
Era il 9 agosto 1991. A Campo Calabro, proprio in provincia di Reggio Calabria, sono da poco passate le 17 quando sulla strada che dal mare porta al centro abitato si sentono esplodere due colpi di fucile. Quelli che non lasciano scampo al giudice di Cassazione.
Antonino Scopelliti, allora. Un giudice, certo. Ma sarebbe più giusto dire un magistrato che faceva davvero paura alla Mafia, alla ‘Ndrangheta e al terrorismo. Tanto che è convinzione comune che il suo assassinio è stato organizzato da entrambe le potentissime associazioni criminali.
Quell’uomo nato – incredibile coincidenza – proprio a Campo Calabro nel gennaio 1935, fin dall’inizio aveva un gran talento, passione e attenzione per il mondo della magistratura.
Già a 24 anni, infatti, è uno dei più giovani magistrati d’Italia. Diventato Sostituto procuratore alla Suprema Corte di Cassazione, a lui viene affidato il compito di rappresentare la pubblica accusa in tutti i maggiori processi per terrorismo o per crimini mafiosi. A partire dalla strage di piazza Fontana a Milano (1969), passando per il procedimento riguardante l’assassinio di Aldo Moro (1978), fino alla strage di piazza della Loggia a Brescia (1974), dell’Italicus (sempre 1974) e degli omicidi di Rocco Chinnici (1983) e Walter Tobagi (1980), sono più di 1.500 i processi seguiti da Scopelliti nel solo periodo passato in Cassazione.
Ma, paradossalmente, nonostante si trattino tutti di temi caldissimi, e quasi tutti irrisolti, non sono queste carte processuali a farlo diventare una delle Toghe più odiate d’Italia.
Altri fascicoli. “La sua sentenza di morte – ha raccontato Antonino Caponnetto oltre 20 anni fa – fu firmata quando accettò di sostenere l’accusa nel maxi processo in Cassazione contro la mafia palermitana”.
Già, quel Maxiprocesso, messo in piedi da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che nel 1987 ha condannato all’ergastolo molti esponenti di Cosa Nostra, che aveva superato il secondo grado di giudizio – le pene sono state molto più leggere – e che doveva superare l’ostacolo della Cassazione. L’ultimo gradino.
Quello decisivo.
Antonino Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa contro la mafia siciliana, ma è ucciso in Calabria, terra di ’ndrangheta. E difficilmente Cosa Nostra avrebbe potuto uccidere un giudice di Cassazione senza il permesso, la collaborazione, della ’ndrangheta.
Cosa accade, allora? Leggiamo bene queste parole: “È difficilmente contestabile che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ’ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto ben conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità”. A scriverle, su “La Stampa” del 17 agosto 1991, quindi otto giorni dopo l’omicidio, è stato Giovanni Falcone, all’epoca a Roma a dirigere l’ufficio Affari penali.
Facilissimo, allora, intuire cosa sia successo. Una morte decisa a tavolino da più mani e più menti.
Il paradosso, però, è proprio questo. Nonostante si sappiano i motivi, il contesto, i perché, il dove, dopo 27 anni sono ancora sconosciuti i mandanti e gli esecutori materiali.
Nel 1996, infatti, il tribunale di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo Salvatore Riina e i suoi sodali come mandanti dell’omicidio, ma due anni più tardi i giudici della Corte d’Appello hanno ribaltato il giudizio, assolvendo tutti gli imputati e lasciando il delitto ancora oggi impunito.