Per gli americani è il giorno dell’infamia.
Impossibile da dimenticare. Impossible to forget, direbbero oltreoceano.
Il 7 dicembre 1941. “Una data segnata dall’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente ed intenzionalmente attaccati dalle forze aeree e navali dell’Impero del Giappone. Gli Stati Uniti erano in pace con questo paese (…) Non importa quanto tempo occorrerà per riprenderci da questa invasione premeditata, il popolo americano con tutta la sua forza riuscirà ad assicurarsi una vittoria schiacciante”.
A parlare è Franklin Delano Roosevelt, al Congresso riunito in seduta plenaria.
Il 7 dicembre 1941. Una delle date più nefaste per la storia navale del Paese a stelle e strisce. Uno degli episodi più significativi di tutto il ‘900, e della Seconda guerra mondiale.
Quel giorno, 76 anni fa, è una domenica mattina che si preannuncia tranquilla e soleggiata, in tutto l’arcipelago delle Hawaii e nella principale base navale americana del Pacifico, Pearl Harbor, sull’isola di Ohau. Alle 7.55, i velivoli con la palla rossa del Sol Levante, 183 tra bombardieri in picchiata e in quota, aerosiluranti e caccia di scorta, prendono di mira le 96 navi della Us Navy ormeggiate inermi lungo i moli. I samurai del cielo, attaccano la flotta americana del Pacifico. E continuano a farlo, quasi indisturbati, fino alle 8.40.
E poi riprendono. Alle 8.54 una seconda ondata di 171 aerei colpisce senza sosta la base navale.
L’attacco, oltre che inaspettato, impedisce agli Stati Uniti di reagire, tanto che le perdite giapponesi – in termini di mezzi, si intende – sono irrisorie.
Le perdite umane, invece, sono più di 2.400, mentre quasi 1.200 i feriti.
Non resta che un arcipelago in fiamme. Sette ore più tardi l’imperatore giapponese Hirohito firma la dichiarazione di guerra da consegnare ai diplomatici americani.
Lo storico Bernard Millot, nel suo libro “La Guerra del pacifico” (Rizzoli, 2002), scrive che “quasi tutti gli americani nel continente seppero dalla radio la notizia sorprendente. Si trattava di un brutale risveglio alla realtà. I comunicati, in mancanza di particolari, sottolinearono il carattere infamante di quell’attacco a tradimento… il colpo era violento e doloroso, ma aveva in sè quel germe fecondo che doveva galvanizzare gli americani. L’importanza attribuita a questa retorica intorno alla parola infamia aveva in realtà lo scopo, da un lato di nascondere la nota impreparazione delle forze armate degli Stati Uniti e, dall’altro, di trascinare l’America una grande guerra punitiva”.
Tutta l’operazione, passata alla storia come “operazione Z”, è concepita dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto. In teoria – ma soltanto in teoria – è un successo, ma in realtà è un fallimento perché non riesce a centrare gli obiettivi primari
Tre portaerei, poi decisivi per il prosieguo della guerra.
Già, la guerra. Gli americani, fin lì neutrali anche se fin dal primissimo momento decidono di sostenere materialmente la Gran Bretagna, entrano in prima linea nel conflitto, cambiandolo per sempre. Non subito, perché per sconfiggere le forze nazifasciste ci vorranno altri 4 anni, e milioni e milioni di morti. E le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Ci sarebbe da chiedersi, però – e tanti lo hanno fatto – perché l’attacco di Pearl Harbor. C’è subito da dire che gli Stati Uniti rappresentavano, agli occhi dell’imperialista Tokyo dell’epoca, bramosa di estendersi sempre più in Oriente, il più temibile avversario per le personali manie espansionistiche.
Tanto è vero che, fin dal 1937, e quindi dall’invasione nipponica in Cina, i rapporti tra il Paese del Sol Levante e gli americani sono deteriorati. E peggiorano sempre più con lo scoppio del conflitto, tanto più che i giapponesi arrivano anche nella Indocina meridionale.
C’è da domandarsi, però, un’altra cosa: possibile che i Servizi segreti americani e britannici non avessero informative su quell’attacco?