Quattro anni fa, nel centesimo anno del suo genetliaco, la Federazione italiana di atletica leggera lo ha ricordato come si deve.
Giustamente, ci sentiamo di aggiungere.
Perché lui, Adolfo Consolini, nato il 5 gennaio 1917 a Costermano (Verona), paesino di 2.500 abitanti sulla sponda orientale del lago di Garda, è stato uno dei più grandi atleti che l’atletica italiana abbia mai avuto. Perché, in una carriera durata oltre 30 anni, il “gigante buono” (come era soprannominato, ma anche l’insuperabile) ha vinto di tutto e di più: un titolo olimpico (1948), tre europei (1946, 1950,1954), tre primati mondiali, innumerevoli campionati italiani e centinaia di gare nel lancio del disco.
Ultimo di cinque figli di una famiglia di contadini, alto 1.80 per 105 kg, è stato notato giovanissimo dai dirigenti della “Bentegodi Verona” durante una gara di lancio di pietre da sette kg, allo stadio di Verona. È allenato all’inizio dal maresciallo Carlo Bovi, poi da Giorgio Oberwerger con cui ha formato un binomio vincente per decenni. Indirizzato al lancio del disco, è stato uno dei primi professionisti dell’epoca, trasferendosi a Milano alla “Pro Patria” e poi alla “Pirelli”.
Nel 1948 a Londra si è disputata la prima Olimpiade dopo il secondo conflitto mondiale. Lo sport tornava e voleva rinascere, dopo gli orrori della guerra. A Wembley Consolini ha sbaragliato la concorrenza con 52.78, davanti a un altro azzurro, Beppe Tosi (51.78) e allo statunitense Fortune Gordien. Rimarrà la vittoria più prestigiosa della carriera, a cui hanno fatto seguito un 2° nel 1952, un 6° nel 1956 e 17° nel 1960, nei giochi olimpici romani (qui era stato scelto per pronunciare il giuramento degli atleti alla cerimonia di apertura). I suoi tre record del mondo li ha ottenuti tutti a Milano: 53.34 nel 1941, 54.23 nel 1946, 55.33 nel 1948. Sono stati dieci, invece, quelli italiani, di cui l’ultimo battuto nel 1967, e lui quel giorno era sugli spalti ad applaudire Silvano Simeon.
Continua a gareggiare fino all’età di 52 anni e cioè fino al 1969, anno in cui un male incurabile lo ha portato via.
Ma soltanto metaforicamente.