A molti, anzi a moltissimi, la parola Domenikon potrebbe non significare nulla.
Tanti potrebbero fare ipotesi su cosa possa essere. Un nome greco. Un personaggio importante. Un artista, un poeta, uno scultore.
No, niente di tutto questo. È semplicemente il nome di un paesino circondato dalla macchia, da ginepri, cardi e rosmarini. Oggi.
Già, oggi. Perché 75 anni fa ha significato ben altro.
Un eccidio, e per giunta italiano. Una pagina scura, scurissima della nostra storia. Un crimine brutto. Disgustoso. E, per decenni, sottaciuto e nascosto.
Talmente orrendo che per alcuni storici è, addirittura, la “Marzabotto” di Tessaglia. In stile nazista, solo un po’ meno scientifico. È stato il primo massacro di civili in Grecia durante l’occupazione, stabilendo un modello. E sbugiardando il detto che “gli italiani sono brava gente”.
Domenikon – è la convinzione degli esperti – è il primo di una serie di episodi repressivi nella primavera-estate 1943. Il generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, emanò una circolare sulla lotta ai ribelli il cui principio cardine era la responsabilità collettiva. Per annientare il movimento partigiano andavano annientate le comunità locali. L’ordine si tradusse in rastrellamenti, fucilazioni, incendi, requisizione e distruzione di riserve alimentari. A Domenikon sono seguiti eccidi in Tessaglia e nella Grecia interna. Altri 30 cadaveri innocenti morti per “vendetta”.
Il giorno da segnare e da riempire di vergogna è il 16 febbraio 1943. Il dì in cui gli italiani si sono trasformati in bestie feroci e senza scrupoli. Perché dovevano vendicare i soldati, ben nove, uccisi dal fuoco dei partigiani greci.
Era accaduto, infatti, che gli autoctoni, i greci, hanno osato fare fuoco dalla collinetta a un convoglio di militari italiani al loro passaggio. Per questo, allora, come le più spietate delle vendette, i greci andavano puniti: non i partigiani, i civili. Domenikon andava distrutta. Delenda est, avrebbero detto i romani. Per dare a tutti “una salutare lezione“, come scrisse poi il generale Cesare Benelli, che comandava la divisione Pinerolo.
Il primo pomeriggio, quindi, i nostri connazionali hanno circondato il villaggio, rastrellato la popolazione e un primo raduno sulla piazza centrale. Poi dal cielo sono arrivati i caccia col fascio littorio bassi, rombando, scaricando le loro bombe incendiarie. Case, fienili, stalle, in fiamme tra le urla delle donne, i muggiti lugubri delle vacche.
Al tramonto, dopo esser stati separati dalle donne, tra pianti e calci, a tutti i maschi sopra i 14 anni e fino agli 80 anni di età, è stato promesso che sarebbero stati trasferiti in un’altra località per gli interrogatori. Menzogna. Come il “Die arbeit macht frei” che riecheggiava nei campi di concentramento. È successo che, di lì a qualche ora, quasi un centinaio di loro sono stati fucilati senza pietà, e la notte e l’indomani i soldati della Pinerolo hanno assassinato per strada e per i campi pastori e paesani che si erano nascosti.
Un’altra carneficina. Che ha fatto salire il totale dei morti a 150. Che diventano 180 contando anche quelli delle rappresaglie successive.
L’episodio è stato per decenni occultato, nascosto e dimenticato finché non è arrivato un illuminante documentario chiamato “‘La guerra sporca di Mussolini”, diretto da Giovanni Donfrancesco e prodotto dalla GA&A Productions di Roma e dalla televisione greca Ert, a vomitare tutto.
In Italia, il documentario è stato rifiutato dalla Rai, e trasmesso dalle emittenti Mediaset il primissimo pomeriggio del 3 gennaio 2010.
Il film, che ha riaperto una pagina odiosa dell’Italia fascista, si basa su ricerche recenti della storica Lidia Santarelli, docente al Centre for European and Mediterranean Studies della New York University.
Il prodotto ha detto tante cose. Ha svelato molteplici episodi della campagna italiana in Grecia, dove eravamo fin dal 1940 per dare una mano – poi, in realtà, siamo stati un peso – ai tedeschi.
L’occupazione (sino al settembre ’43 gli italiani amministrarono due terzi della Grecia, un terzo i tedeschi) si è caratterizzata per le prevaricazioni continue ai danni di innocenti. Abitanti di Atene morti di fame gettati come stracci agli angoli delle strade. Un altro capitolo poco studiato è la prostituzione: migliaia di donne prese per fame e reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani.
Domenikon è stata riconosciuta città martire nel 1998, ma non è diventata memoria collettiva, come Marzabotto. Perché? Perché molti greci non conoscono queste vicende. Perché? Già nel 1948, con la rinuncia del governo a chiedere l’estradizione dei criminali italiani, la questione si è chiusa.
I processi non sono mai stati istruiti.