Cinquanta sfumature dell’animo umano, tante sono le liriche raccolte nel bel volumetto di Gaetano Avena, Il filo d’erba, disponibile presso la bitontina Libreria del Teatro. L’autore, classe 1938, poeta, già docente di Letteratura italiana e latina nei Licei, collaboratore delle testate da Bitonto e Quotidiano di Bari, ha di recente pubblicato altri due volumi di poesie, Le labbra e Dalla finestra. È come sfogliare l’album emozionale del tempo, intimamente rilegato dal fil rouge di passioni e inquietudini, ed è come raccogliere freschi fiori di campo, sparsi tra lirici spicchi di luce e metrici coni d’ombra. Nella poesia di Avena la realtà è un apparente monolite sensoriale che si trasmuta in prisma rifrangente l’immaginario e l’onirico. Il sipario, infatti, si apre di solito su di un palcoscenico in cui il reale lambisce l’apparente, un attimo prima che entrambi si capovolgano e si mescolino in un melanconico gioco d’intermittenze che crea il non-luogo della poesia, un proscenio d’improbabilità, di vaghezze e di dissidi irrisolti sfocianti nell’estuario enigmatico della parola e del verso.
Succede in Gioca, in cui la lettura procede frammentata, tra ombre leggère e luci tumultuose, ma in fondo elusive di ogni disvelamento. Persino il baluginio dell’amata Luna è ambiguamente cupo e abissale, così che spesso ci si ritrova immersi in un verseggiare avviluppante, gettati come all’interno di una stanza buia, o forse soltanto opaca e financo misterica. Queste evanescenze nutrono il testo poetico di Avena di una delicatezza che in Nelle rime è della rosa che si schiude e si scolora, alla stregua del mattino il cui respiro si apre, fidente, al giorno. È forse il mattino mistico e trascendente? O è la mera immagine bucolica che tradisce una posa d’immanenza dell’autore? Si resta “sospesi” anche ne Il filo d’erba, che dà il titolo alla raccolta, in cui, sullo sfondo nostalgico del passato, si stagliano diverse “sensazioni”: un soprannaturale, e vegliardo, silenzio; la vaporosità di una nuvola, fronte corrugata solcata dai ricordi di una vita; un fievole amore, diafano fino ai limiti della trasparenza. È il ciclo vitale dell’acqua che qui si evoca, e che si compie grazie all’unica complicità possibile, nell’amore eterno, esclusivo appannaggio del cielo.
In tale registro emozionale, in cui il visibile convoca l’invisibile, la fine sensibilità di Avena sta nel non mostrare, nella transizione, il benché minimo cedimento impressionistico. Il silenzio, allora, si fa corpo della poesia e si serve dell’istante, quale sbiadito segnacolo del suo viaggiare volutamente impreciso. Il pensiero dell’autore, che traspare appena in controluce, si avvinghia alla filosofia dello spirito, ma forse è soltanto l’urna il cui responso verrà dall’intimo scrutinio delle reminiscenze.
In Chissà, il piacere dei sensi è nel susseguirsi di tocchi, suoni e ascolti, in uno scenario che propone un’arcana visione notturna priva d’ogni rassicurante lanterna; mentre in Intensa Utopia è lo sguardo che abbraccia un auspicato orizzonte d’eternità. Crepuscolo, buio e alba paiono scansioni oniricheggianti, alterni momenti di beatitudine mattutina e di pace vespertina, la cui eco si spande lontana, ammantando i versi di Come l’alba, Non c’è tutto, In replica e All’imbrunire. L’insondabilità delle immagini, in poesie come Non c’è tutto e S’aduna, ha un sostrato di (cristiana?) sensibilità in quel suo auspicio di universale armonia.
Ma il panorama evocativo di Avena è vasto e variegato, e si dilata all’infinito in un gioco enigmatico, o nella contemplativa meraviglia del Creato, e persino in una malcelata ansia di Assoluto. Ci si lascia avvincere da Ricamando, Mareggiava infuriata, Rosei e solitari, Germogliata e Innaffiava, per averne debita contezza: l’autore invita il lettore nel suo laico confessionale, in cui riesce ad essere, ad un tempo, confessore e confesso, mentre rende in arte poetica ogni sentimento. Si resta a lungo, e volentieri, in tale penombra, al cui labile confine si giustappongono, sfiorandosi appena, istinto di fede e logica della diffidenza.
Nel paradossale, talvolta ostile, esilio del poeta, sporadicamente caricato ad arte, la cittadinanza esclusiva spetta alla reticenza e all’omissione, al non-detto: il verso, umbratile e schivo, non può gonfiarsi in monito, troppo grande sarebbe il rischio di svilirne l’ermetica musicalità; e il lettore, dal canto suo, crogiolandosi nel teatro dell’estraniamento, trae dalle sue fioche luci un’esperienza epifanica, la cui unica, e più suggestiva messinscena è la Vita.