L’Italia dei primissimi anni ’80 era davvero diversa da quella di oggi. Le emittenti televisive private – quelle serie, quelle dell’ex cavaliere Silvio Berlusconi per intenderci – erano ancora un po’ lontanucce, e il piccolo schermo non dava spazio al dolore. C’era invece l’intrattenimento puro e genuino, affidato ad alcuni programmi diventati storici: Enzo Tortora conduceva “Portobello” sull’allora Rete2 (oggi Rai2) e faceva sorridere grandi e piccini. “Supergulp” era il programma più amato dai ragazzi, il grande Mike Bongiorno era il mattatore di “Bis”, invitando i telespettatori a risolvere rebus dietro un tabellone.
E non è tutto. Le radio nazionali trasmettevano senza sosta “M’innamoro di te” dei Ricchi e Poveri e “Donatella” della Rettore, mentre i giornali dell’epoca raccontavano in prima pagina le barbarie di un killer senza volto che passa alla storia come il “Mostro di Firenze”.
Mentre accade tutto ciò, il Belpaese viene sconvolto da un altro fatto di cronaca, che mai nessuno avrebbe potuto immaginare sarebbe finita in quel modo. E le conseguenze che avrebbe creato.
Il 10 giugno 1981 inizia a consumarsi il dramma di un bambino di soli sei anni che di nome faceva Alfredo. E della sua famiglia, Rampi. Che era solita passare le vacanze estive in una piccola località non distante da Roma. A due passi da Frascati, per intenderci. Quel giorno, un mercoledì sera, papà Fernando decise di andare a fare una passeggiata con il piccolo Alfredo e due amici. Tutto era tranquillo, ma al momento di rincasare, il piccolo chiese al padre di poter tornare a casa da solo. Il padre acconsentì ma, quando rientra a casa, si accorse che il pargolo non c’era.
Perché? Che fine ha fatto? La famiglia si allarmò e immediatamente scattarono le ricerche. Senza fortuna, tanto che alle 21.30 chiamarono le forze dell’ordine.
Poco dopo, grazie alle unità cinofile e ad altri abitanti della zona, si scoprì che Alfredo era precipitato in un pozzo artesiano profondo circa 85 metri, e dalle pareti irregolari, piene di sporgenze e rientranze. Fin dai primi minuti, ci si rese conto che tirarlo fuori di lì non sarebbe stato per nulla semplice, tanto più che era praticamente impossibile calare dentro una persona. I soccorritori fecero scendere una tavola legata a una corda, auspicando che potesse arrivare in fondo per far aggrappare Alfredo. Fu inutile, poiché si ruppe a metà percorso e ostruendo l’ingresso.
Davvero numerosi furono i tentativi compiuti per salvare il bambino che dal pozzo, mediante un microfono calato all’interno, comunicava all’esterno urlando, piangendo e facendo mobilitare un’Italia curiosa ma inerte dinanzi a cotanto dolore.
Dolore che rimbombava anche grazie (o per colpa, verrebbe da chiedersi) delle telecamere Rai che, una volta giunte sul posto, hanno trasmesso ininterrottamente questa tragedia per 18 ore no stop. Ecco, allora: il dramma di Alfredo e della famiglia diventarono il primo grande evento mediatico della storia televisiva italiana.
“Era diventato un reality show terrificante”, dirà poi il giornalista del Tg1 Pietro Badaloni qualche anno dopo intervistato da Giovanni Minoli per “La storia siamo noi”.
E, purtroppo, dargli torto è assai complicato.
In tanti, tantissimi, accorsero per tentare di dare il loro contributo. Nani, circensi, esperti di pozzi, contorsionisti. Ma il più famoso di tutti è stato Angelo Licheri, un tipografo 37enne che entrò nel pozzo a mani nude, tentando di salvarlo in tutti i modi restando con la testa in giù per 45 minuti, ma non ci riuscì e quando si trovò in superficie scoppiò in un pianto di dolore e disperazione. E, nel frattempo, siamo arrivati alla notte tra il 12 e il 13 giugno.
Si è tentato anche di scavare un pozzo parallelo, ma le vibrazioni della trivellazione provocarono una ulteriore discesa di Alfredo, rendendo così ancora più complicato il salvataggio.
Qualche ora prima era giunto anche Alessandro Giuseppe Antonio Pertini, presidente della Repubblica.
Tutto, però, si è rivelato inutile. Il 13 giugno, due giorni e mezzo dopo l’inizio del dramma, la notizia che mai nessuno avrebbe voluto dare arrivò dal Tg1: Alfredo Rampi, soltanto sei anni, aveva finito di vivere. E di soffrire.
Giancarlo Santalmassi, invece, durante l’edizione straordinaria del Tg2 di quello stesso giorno, dichiarò: “Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi”.
Trentasette anni dopo ce lo continuiamo a chiedere.
Il corpo del piccolo fu estratto soltanto l’11 luglio, 31 giorni dopo essere caduto in quel maledettissimo pozzo.