Gli atti processuali parlano di suicidio.
La storia, però, è decisamente diversa. Perché quella di Cosimo Cristina è quella di un giornalista attento, scrupoloso, coraggioso e, purtroppo, ucciso dalla mafia in una Sicilia, all’epoca dei fatti, immobile e silenziosa. Siamo al principio degli anni ’60, e il fenomeno mafioso è ancora negato nonostante sia dilagante. Tutti zitti nella Regione più grande d’Italia, e in tutto lo Stivale, nonostante si facesse davvero fatica a contare i morti ammazzati. E la prima guerra di Mafia era ancora relativamente lontana.
Cosimo Cristina, dunque. La sua figura, a tanti, potrà non dire nulla. Sebbene ci sia tanto da dire. Perché è il primo cronista ucciso da Cosa Nostra, a soli 24 anni, e correva l’anno 1960. Perché è la vicenda, come raccontano Luciano Mirone e Antonio Bonanno nel libro “Cosimo Cristina. Il «cronista ragazzino» ucciso dalla mafia” uscito qualche anno fa, “di una Sicilia bellissima e triste. Insanguinata dalle lotte contadine e dominata da una mafia che all’epoca pochi – compreso la Chiesa – osano mettere in discussione. Perché è anche la storia di un amore spezzato nel fiore degli anni, nonché seppellita per decenni nell’oblio delle coscienze” di tanti, forse di troppi, che hanno accettato una verità di comodo, pur sapendo che era quella sbagliata.
Come accadrà, quasi un ventennio dopo, con un altro giornalista: Giuseppe Impastato.
Nato a Termini Imerese nel 1935, Cristina capisce subito quale sia la sua strada e diventa cronista e corrispondente di numerosi quotidiani come “L’Ora”, “Il Giorno” di Milano, l’agenzia Ansa, “Il Messaggero” di Roma e “Il Gazzettino” di Venezia. Dopo qualche anno, nel 1959, insieme a Giovanni Cappuzzo, fonda il settimanale di approfondimento “Prospettive Siciliane”, che fin da subito si fa notare per la pubblicazione di denunce, inchieste, per il tentativo di non fermarsi al semplice racconto dei fatti ma scovando la polvere che c’era dietro, nonché di indagare su omicidi e fatti di mafia pubblicando nomi e cognomi eccellenti. Che avevano a che fare, e non poco, con la manovalanza criminale del suo Comune e di quello di Caccamo.
Ovvio, però, che raccontando notizie delicate e piccante, il giovane giornalista diventa fin dal principio un bersaglio da colpire per Cosa Nostra, che decide di eliminarlo non come farà con gli altri – a classici colpi di kalashnikov o con altre armi da fuoco – ma facendo sembrare tutto come il più classico dei suicidi.
Il 3 maggio 1960 scompare. A distanza di due giorni, il 5 maggio, il suo corpo è trovato dilaniato e con il cranio sfondato sui binari ferroviari di Termini Imerese. Nelle sue tasche due lettere di addio, una alla fidanzata Enza e l’altra a Cappuzzo. Le indagini iniziano subito, ma nella direzione sbagliata in quanto depistaggi e rallentamenti caratterizzano le operazioni di polizia, e non viene eseguita nessuna perizia calligrafica sui biglietti. Immediatamente si parla di suicidio, e il caso è subito archiviato.
La famiglia, però, non si rassegna e, insieme ai colleghi dell’”Ora” e a un altro giornalista, Mario Francese, trovano subito alcuni dettagli che da subito mettono in crisi la falsa idea del suicidio. Ma per la procura niente di tutto questo è rilevante.
Passano sei lunghi anni, e a Palermo qualcosa si muove. L’allora vicequestore del capoluogo siciliano Angelo Mangano, convinto che Cristina fosse una giovanissima vittima delle cosche mafiose, riapre il caso, stila un rapporto esplosivo ed esaustivo e identifica il movente dell’omicidio un articolo che scava dietro all’uccisione del pregiudicato Agostino Tripi, denunciato per un attentato dinamitardo a una gioielleria ma poi eliminato dalla mafia perché parlava troppo. Ma l’autopsia fatta al cadavere nello stesso anno non dà conforto alle idee di Mangano: resta solida l’idea del suicidio.
Da allora, da quel tentativo coraggioso, un fragoroso silenzio si è alzato fino al 2000, anno in cui con una raccolta firme si è chiesto alla procura di Palermo di riaprire il caso.
Risposta? Negativa.
Eccolo, allora, Cosimo Cristina. Un giornalista ucciso dalla mafia ma sepolto dall’indifferenza.