Se volessi garantirmi strali iuppiterini, magari lanciati di lassù con un sorriso vespigno, principierei il pezzo in ricordo di Raffaele Licinio, docente universitario, stroncato ieri all’età di 73 anni da un male incurabile, definendo con qualche nomignolo latino Federico II di Svevia, personaggio che il prof ha indagato con scientifico rigore. Già, perché le ipotesi più ardite, per non dire strampalate – che, molte volte, han riguardato proprio il geniale imperatore -, lui le rubricava nei “monstra”, le corbellerie sparate dagli storici sull’epoca che più di tutte adorava: il Medioevo. Licinio era un mito dell’Ateneo barese, le sue lezioni seguitissime, persino da chi esami con lui non doveva sostenere. Il suo curriculum? Infinito. È stato professore ordinario di Storia medievale nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, sino al 1999 docente di Antichità e Istituzioni medievali nella stessa Facoltà e dal 2001 docente per supplenza di Storia medievale nella Facoltà di Lettere dell’Università di Foggia, direttore da novembre 2002 del Centro di Studi normanno-svevi dell’Università di Bari, già direttore dei Corsi di Perfezionamento in Storia del Mezzogiorno medievale e Cinema e Storia della stessa Università, fondatore e direttore tra 1995 e 1998 della “Scuola-Laboratorio di Medievistica” di Troia.
Professionista eccelso, incrollabilmente innamorato della Storia, medievista sopraffino e profondo, uomo ironico e arguto, intellettuale coraggioso e sempre coerente, ha vissuto da protagonista il Sessantotto e gli incandescenti anni a seguire. Ha firmato libri divulgativi e mai banali, anche a quattro mani con l’amico Franco Cardini, amava i suoi cari, specie la figlia Laura, lucente musicista. Lo piangono il mondo accademico della cosiddetta école barisienne, la cultura pugliese tutta e i parenti (la stilnovistica cugina Maria) e gli amici bitontini (specie due, che abbraccio: Vincenzo Fiore e Marino Pagano). Raffaele Licinio, infatti, pur essendo nato a Ceglie del Campo, era di chiarissime origini bitontine, suo nonno era proprietario della tabaccheria ai piedi del Torrione angioino. “Venivo spesso nella “mia” città, e passavo le mie serate in quel locale su Piazza Cavour, almeno finché per mio padre non divenne doloroso venire”. Dunque, un vuoto che s’annuncia già incolmabile. Sia compito essere all’altezza del suo ricordo.
Una particolarità, in chiusura. Pur essendo uno studioso rigoroso, che veniva comunque da un’altra epoca, frequentava con ironia e saggezza i social, tant’è che per molti risultava piacevole e arricchente dialogare con lui. Ecco, credo che molti, nella virtuale comunità, sovente popolata da maschere, sentiranno la mancanza del suo essere vero. E tanto, pure…