«Prima delle persecuzioni di Boko Haram, la mia vita era bella e felice. Poi i terroristi sono arrivati in città, hanno preso in ostaggio persone, depredato e incendiato le loro case, sparato e ucciso. Ho perso la mia famiglia».
È la toccante testimonianza di Serge, camerunense che, da un anno e tre mesi è in Italia ed è richiedente asilo, dopo un viaggio in mare con una piccola barca: «Un viaggio molto duro, ma è andato molto bene con l’aiuto di Dio».
Serge è uno dei ragazzi che ieri hanno partecipato, nella Basilica dei Santi Medici, alla 104esima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Un evento organizzato, per la prima volta a Bitonto, dalla Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza Episcopale.
In mattinata c’è stata la celebrazione eucaristica presieduta dal Vicario Generale Monsignor Domenico Ciavarella e animata dalle comunità etniche presenti, con canti nelle loro lingue. A seguire un pranzo multietnico e una festa interculturale.
Un’occasione preziosa che per don Michele Camastra, direttore diocesano dell’Ufficio Migrantes, serve a «guardare negli occhi i migranti e vincere la paura di incontrarli. Ma anche per riflettere sull’individuazione di soluzioni integrate che consentano di attuare tutti i quattro verbi indicati nel messaggio di Papa Francesco: accogliere, proteggere, promuovere e integrare».
«Ogni migrante non è solo un immigrato, ma anche un emigrato. Dovremmo pensare a tutto ciò, perché emigrati come loro sono anche gli studenti che vanno fuori Italia per studiare o per lavorare. E, per i paesi di arrivo, sono immigrati» spiega Camastra, rivelando che il numero degli immigrati è uguale a quello degli emigrati.
«Per la Chiesa l’attenzione per i migranti non è nulla di nuovo – continua il religioso – La Giornata del Migrante è alla sua 104esima edizione. 104 anni fa i migranti non erano certo quelli attuali. C’eravamo noi italiani, che fuggivamo dalla povertà. Dovremmo essere più solidali con loro, pensando che, anche tra gli italiani è in atto una migrazione. Quella che noi comunemente chiamiamo “fuga dei cervelli” non è altro che un fenomeno migratorio. Ognuno fugge per qualcosa. Chi dalla guerra e dalla dittatura, chi dalla povertà e per trovare un futuro migliore per sé e per la famiglia».
«Ricordiamo che l’altro ha sempre qualcosa da dirci. Bitonto oggi sta dando prova una testimonianza di accoglienza verso chi non si conosce» conclude Camastra, indicando con entusiasmo alcuni ragazzi africani che ballano la pizzica e aggiungendo che queste iniziative di sensibilizzazione sono rivolte a chi è il cuore aperto: «Chi ha il cuore chiuso sarà sordo a qualsiasi cosa gli venga detta».
Presenti alla manifestazione diverse comunità. Africani, provenienti da Camerun, Ghana, Niger, Nigeria. Europei provenienti da Bulgaria, Romania, Albania. E altri provenienti da diversi paesi, come Siria e Filippine. Sono in fuga dai loro paesi per i più diversi motivi. Tra loro molti cattolici che, ogni domenica, alle 11, partecipano alla messa in inglese celebrata alla chiesa di Santa Croce a Bari. Ma anche cristiani ortodossi, islamici.
Al termine della manifestazione tre di questi ragazzi hanno raccontato le loro esperienze. Esperienza di vita, di felicità nei propri paesi di origine e, successivamente, di tristezza per essere costretti a fuggire altrove, in un paese straniero, dopo un viaggio lungo, faticoso e pericoloso. Attende il riconoscimento dell’asilo, ma i tempi sono lunghissimi.
«In Senegal facevo una vita normale. Ero laureato, facevo volontariato per aiutare i più poveri» racconta Sule, che in Africa era anche attivo politicamente per far capire che con valute come quelle in uso il continente non sarebbe mai cresciuto e che ci vorrebbe una moneta unica sul modello dell’Euro: «Ma in Africa spesso le autorità sono corrotte e non pensano al bene comune. E così sono stato prima arrestato e poi minacciato e costretto a fuggire».
Maringlen è, invece, albanese, arrivato a Bari dopo aver scoperto che suo figlio soffre di gravi problemi di salute. Per fornirgli le cure settimanali di cui ha bisogno ha affrontato e continua a farlo notevoli difficoltà economiche, confortato dall’aiuto della Chiesa, che lui frequenta nonostante sia ortodosso.
Youssuf è, invece, del Niger. Nel suo paese ha perso i genitori, uccisi dai fondamentalisti di Boko Haram, che volevano costringerlo ad unirsi a loro. Ma lui sogna di aiutare le persone e di diventare medico: «È facile cadere nella trappola dei terroristi. Ma sono convinto che una gentilezza valga più di una bomba». Ha intrapreso, dunque un lungo viaggio in cui ha visto morire amici. In Italia lavora come bracciante la mattina e studia la sera. È donatore di sangue e sogna ancora di diventare medico».