Quel terribile giorno lo ricordiamo tutti. Nonostante siano passati 14 anni.
12 novembre 2003. Il dì, per molti, dell’11 settembre italiano.
L’anno dopo toccherà alla Spagna. E poi alla Gran Bretagna. Seppur con modalità del tutto diverse.
Il fatto è ancora nei nostri occhi. Siamo a Nassiriya, Iraq. E perché siamo a Nassiriya? Perché qualche mese prima, a marzo, gli Stati Uniti di George W.Bush hanno invaso il potentissimo stato asiatico per rovesciare il regime di Saddam Hussein, reo di aver progettato armi di distruzione di massa. Ovviamente mai trovate.
E perché l’invasione? Qui sfondiamo nei campi della geopolitica e delle più alte sfere della politica internazionale. Poco più di due anni prima, l’allora terrorismo islamico denominato Al Qaeda, aveva buttato giù le Torri gemelle facendo oltre 3mila vittime.
Il vero 11 settembre, quello che ha cambiato il mondo. In peggio, ovviamente.
Gli Usa reagiscono invadendo l’Afghanistan, la terra dei talebani e di Osama Bin Laden, la mente e pure il braccio dell’attentato alle Twin Towers.
E, sempre in quel periodo, spunta la strategia della guerra preventiva, firmata proprio dal presidente americano. Conflitto a tutti costi – anche senza motivi concreti – a Iraq, Iran e Corea del Nord.
Si invade la terra di Saddam. Come ai tempi della guerra del Golfo nei primissimi anni ’90. Nella terra dalla bandiera a stelle e strisce c’era sempre Bush, ma padre. L’Onu non vuole l’invasione, ma chi se ne importa. Viene fatta comunque. E anche l’Unione europea di defila.
I primi a sostenere gli Stati Uniti nella guerra in Iraq sono la Gran Bretagna del laburista Tony Blair e l’Italia guidata da Silvio Berlusconi.
I nostri uomini, militari e carabinieri, hanno regole di ingaggio ben precise.
Stanno lì per mantenere la pace (domanda: ma come si può fare si fa a farlo nel pieno caos?). E quindi: ricostruzione del “comparto sicurezza” iracheno attraverso l’assistenza per l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze, a livello centrale e locale; creazione e mantenimento della necessaria cornice di sicurezza; concorso al ripristino di infrastrutture pubbliche e alla riattivazione dei servizi essenziali; concorso all’ordine pubblico; controllo del territorio e contrasto alla criminalità.
L’hanno denominata operazione Babilonia. È terminata nel dicembre 2006.
Ha inizio nel luglio 2003.
Siamo al 12 novembre, quindi. Non sono neanche le 9 del mattino in Italia.
Un’autocisterna blu irrompe nella Base maestrale di Nassiriya ed esplode appena fuori il cancello di entrata. È la catastrofe: crolla gran parte dell’edificio principale, ed è gravemente danneggiata una seconda palazzina dove ha sede il comando. I vetri delle finestre del complesso vanno in frantumi. Nel cortile davanti alla palazzina molti mezzi militari prendono fuoco. In fiamme anche il deposito delle munizioni. Il bilancio è devastante: 28 morti, 19 dei quali italiani (e fra questi dodici carabinieri), e 58 feriti.
“C’è un grande cratere dove prima si trovava il parcheggio, a meno di 10 metri dalla facciata devastata della palazzina a tre piani”, racconta un giornalista poche ore dopo l’accaduto.
Il giorno dopo, invece, il ministro della Difesa, Antonio Martino, accorre sul posto e dice laconico: “Quel cratere è il nostro Ground Zero”.
Il 18 novembre i funerali di Stato nella basilica di san Paolo fuori le Mura.
Vengono aperte due inchieste. Una dalle autorità irachene, l’altra dalla procura di Roma. Quest’ultima riesce solo a scoprire che a scoppiare è stato un camion cisterna con 150–300 kg di tritolo mescolato a liquido infiammabile.
Ma non è tutto, perché Nassiriya raccoglie altro sangue italiano. È il 27 aprile 2006, e questa volta a perdere la vita sono altri cinque militari, per colpa di un ordigno posto nel bel mezzo di una carreggiata che colpisce alcuni mezzi nostrani.
Nessuno dimentica.
Abbiamo ancora il cuore straziato.