Fa un certo effetto passare accanto alla vecchia scuola media Anna De Renzio e vedere i bulldozer buttarla giù, frantumarla pezzo per pezzo. Quasi dispiace vedere che quei luoghi dove hai trascorso tre anni della vita, amati o odiati, a seconda degli eventi, siano adesso un ammasso di macerie. Una sensazione, ora amplificata, che già si provava negli ultimi mesi, osservando quell’edificio in disuso, con quel materiale didattico ancora affisso ai muri e visibile dalle finestre, che attendeva lì il suo destino, come un condannato a morte che attende la sua esecuzione.
Eppure ogni volta che si passava davanti una sola domanda, sempre la stessa, balzava nella mente: «Quando demoliscono quel palazzo?». Colorando la parola “palazzo” con infelici epiteti che lasciamo indovinare ai lettori.
Ovviamente, è bene sottolinearlo, nulla può dirsi sulla qualità dell’attività didattica. Per decenni tanti alunni lì hanno vissuto i tre anni di passaggio tra l’istruzione elementare e quella superiore. Lì hanno approfondito quanto imparato nei cinque anni precedenti. E lì si sono preparati per il lustro successivo. Intere generazioni di studenti hanno studiato al “quarto gruppo”.
Gli epiteti negativi sono dovuti all’impressione per nulla accogliente che dava dall’esterno il palazzo, espressione della peggiore edilizia degli anni ‘70, con quelle facciate annerite dal tempo e dallo smog, quella scala di sicurezza che tanta sicurezza non ispirava, quelle sbarre alle finestre che ricordavano più una casa circondariale che un edificio destinato alla formazione e tutte le caratteristiche negative che lo rendevano non adatto alle funzioni a cui era stato adibito.
È un misto di soddisfazione e malinconia quello che si prova osservando i mezzi al lavoro. Soddisfazione perché quella colata di cemento e mattoni di estetico non aveva proprio nulla e qualsiasi cosa verrà al suo posto sarà sicuramente meno brutta. Malinconia perchè, ad un tratto, salgono alla mente i ricordi del tempo lì trascorso. Le amicizie nate, le cotte, le liti, le simpatie e le antipatie tra ragazzi, le ore di lezione, che talvolta erano interessanti, ma talvolta si faticava a tenere le palpebre aperte. Si pensa ai successi scolastici e agli insuccessi, in quelle materie che proprio non entravano in testa. Ai rimproveri dei professori, ai loro scleri, che spesso solo dopo anni, da adulto, riesci a comprendere, ai compiti di matematica svolti a casa insieme all’amico, con cui la principale preoccupazione era il tempo impiegato a risolvere il problema, più che la correttezza del risultato e del procedimento (tanto sul libro era già indicata la soluzione e qualsiasi metodo, anche non corretto, era lecito per arrivare a quel numero a margine della traccia).
Tornano alla mente ad esempio il professore che, passati 15 minuti dal suono della campanella, chiedeva puntualmente se l’ora fosse finita, la docente che, per punizione, costringeva lo studente impreparato a scrivere innumerevoli volte il concetto non studiato, le lezioni di informatica con programmi già obsoleti all’epoca. I rimproveri, causati dai continui ritardi, da parte della preside, la cui espressione severa e inflessibile, nella mente di un ragazzino, ben si associava (non me ne voglia) all’austera facciata esterna del palazzo.
E ancora si ricordano le ore trascorse in quell’angusto garage adibito a palestra, dove, per arrivare, bisognave uscire dalla porta in via Leopardi, girare a sinistra su via Carrara e percorrerla per cinque metri (del resto anche la segreteria era all’esterno, dall’altro lato della strada). Lì, in quel surrogato di luogo sportivo, interminabili partite di pallavolo si tenevano. Interminabili perché, su dieci tiri, otto volte la traiettoria della palla si infrangeva sul soffitto troppo basso, una volta oltrepassava la finestra che si affaccia su via Carrara, finendo sotto le macchine parcheggiate, e una volta (forse) finiva nel campo avversario.
A breve quel palazzone non ci sarà più, ma per chi l’ha frequentato, per chì lì ha insegnato o lavorato, per chi lì davanti ci è sempre passato, qualsiasi cosa sorgerà, nella memoria in quel posto resterà sempre “u quarte gruppe”.