Antonino Cassarà, detto “Ninni” era un poliziotto che aveva un sogno forse irrealizzabile per l’epoca. Vedere la sua città, Palermo, libera dalla criminalità e dalla mafia.
Eravamo a metà anni ’80, però. Cosa Nostra, con i vertici corleonesi, aveva già lasciato il segno lasciando per strada cadaveri eccellenti come Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Calogero Zucchetto, Rocco Chinnici, per non parlare di figli, figliastri delle famiglie mafiose Bontate, Inzerillo e Buscetta, che perde parenti fino alla dodicesima generazione.
Qualcosa, però, in quegli anni sta cambiando: proprio Buscetta, don Masino, il boss dei due mondi, ha iniziato a collaborare con la giustizia (e la stessa cosa farà Salvatore Contorno) rivelando strutture e segreti della piovra criminale che da anni stava dominando in Sicilia, e non solo.
E proprio grazie a quelle testimonianze – correva l’anno 1984 – i giudici Falcone e Borsellino qualche mese dopo – estate 1985 – erano pronti a chiudersi all’Asinara per preparare il Maxi Processo.
Già, l’estate 1985. Il sogno di Cassarà, 38enne servitore dello Stato, Commissario di polizia a Reggio Calabria e a Trapani, si spezza il 6 agosto. Esattamente 32 anni fa.
È ucciso sotto casa, in viale Croce Rossa a Palermo, da un commando mafioso composto da nove uomini che ha sparato 200 colpi di kalashnikov. Con lui è colpito anche l’agente Roberto Antiochia, 23 anni, rientrato dalle ferie per stare vicino al suo capo. Cassarà è spirato sulle scale del palazzo tra le braccia della moglie Laura, accorsa per soccorrerlo.
In quella mattanza si è salvato soltanto Natale Mondo, l’altro agente di scorta, pronto a nascondersi sotto la macchina durante la pioggia di colpi. Ma gli sono restati soltanto pochi mesi di vita, perché la mafia lo ha fatto fuori nel gennaio 1988.
Dopo l’assassinio (o contemporaneamente a esso) è sparita in questura la sua agenda, dove si presume fossero annotate importanti informazioni.
“Cassarà – ha dichiarato un paio d’anni fa Margherita Pluchino, anche lei poliziotta impegnata nella lotta alla Mafia – era capace di coinvolgere tutto il personale, dava fiducia a tutti e la sua squadra funzionava alla perfezione: ognuno si sentiva responsabile del compito che gli veniva affidato. Aveva una grande capacità organizzativa. Lavorava senza orari ed era capace di scendere in piazza per i suoi uomini in qualunque momento, supportandoli. Non scaricava mai nessuna responsabilità assumendosele in prima persona e questo per noi che lavoravamo con lui era tanto”.
“Senza il suo lavoro sfociato nel famoso rapporto dei 161+1, che ha rivelato la struttura dei mandamenti mafiosi, non ci sarebbero state tutte le indagini successive che portarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a istruire il maxiprocesso contro Cosa Nostra – dice ancora Pluchino -. Quel rapporto fu una base (e un metodo) indispensabile e insostituibile per le investigazioni che inchiodarono oltre 400 persone per reati di mafia”.
La morte di Cassarà, però, è solo consumata il dì di una calda giornata di inizio agosto. Inizia il 28 luglio con l’uccisione di Beppe Montana, poliziotto anche lui e capo della squadra mobile di Palermo.
È ucciso a colpi di pistola mentre passeggiava con la ragazza a Porticello.
Quell’orrendo assassinio ha dato via a una nuova escalation di morti ammazzati, perché in soli dieci giorni sono stati assassinati tre investigatori della squadra mobile del capoluogo siciliano, particolarmente esposti perché, secondo un gran numero di fonti unanimi, questi uomini, a partire dallo stesso Cassarà, furono lasciati soli.
E Ninni ha capito fin dall’inizio che con la morte dell’amico e collega Beppe qualcosa è cambiato.
“Ero rientrata dalle ferie di corsa a Palermo – ricorda Pluchino -. C’era l’inferno in quei giorni. Cassarà viveva in un isolamento totale, abbandonato anche da funzionari e colleghi”.
E, come se non bastasse, non torna più a casa nell’intervallo, non segue mai lo stesso percorso, cambia orari e abitudini. La moglie gli fa da aiutante. Controlla dai balconi, osserva le facce della gente.
Viveva da perfetto bandito, insomma, perché aveva deciso di non girare la testa dall’altra parte o metterla sotto la sabbia.
Ma non sfugge al suo destino, ormai deciso e segnato.
Dieci anni dopo la sua morte, nel 1995, sono stati condannati all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia come mandanti del delitto.
I vertici della Cupola mafiosa…