Un signore
piccolino, minuto, che dentro quell’involucro corporeo custodisce un grande
cuore, tutt’un mondo che cerca di portar fuori emozioni e parole.
È Roberto
Vecchioni, cantautore milanese, che lo scorso venerdì ha aperto la stagione
teatrale del “Traetta” raccontando il suo ultimo romanzo “La vita che si
ama – storie di felicità” , guidato dal regista Cosimo Damiano Damato, e regalando un live acustico delle sue canzoni
più amate accompagnato alla chitarra da Massimo Germini.
L’autore ci
ha condotti in un viaggio personale parlando, prima in conferenza stampa poi in
teatro, ai giovani di arte e bellezza.
«La musica è fatta dalle parole
dettate dal cuore e queste penso siano importantissime per i giovani, rimangono
un test di sopravvivenza, un test per combattere tutto ciò che non va bene».
Siamo
uomini, creature, che prendono dalla cultura il motivo per resistere e vivere: «La bellezza, l’arte non sono democratiche– commenta Vecchioni -. L’eguaglianza, la
libertà, la parità dei sessi lo sono, ma non è la maggioranza che fa la
bellezza. Per capirla ci vuole un back ground culturale importante e oggi siamo
invasi dal chic perché siamo superficiali: i ragazzi credono che tutto sia
bello, invece non è così. Se questa vorrà essere ad appannaggio di tutti
bisogna che ci sia educazione, è una bella impresa e chi ci riesce è anche un
po’ eroe, perché la bellezza serve a vivere».
Per il
cantautore l’arte non è divisa, «comunica
e dà emozioni con forme diverse – spiega -. Quando mi dicono che Bob Dylan non
fa letteratura mi viene da ridere! Molta letteratura del teatro è stata tramandata,
nemmeno scritta, figuriamoci».
E chiediamo
della scomparsa di Leonard Cohen e della sua omonima canzone: «Cohen non ha preso il Nobel perché è più
interno, più intimo – dice subito -. Scrissi
quella canzone quando la mia donna era incinta della nostra prima figlia,
eravamo a Venezia, parlammo tutta la notte di Leonard ascoltando le sue
canzoni, facemmo l’amore e quella notte scrissi questo componimento bellissimo».
Il poeta,
però, canta soprattutto di quel che manca: «Pensate
ad Ovidio – prende a raccontare – rappresentava
l’amore tra Orfeo ed Euridice: Orfeo cantava in modo che tutta la natura fosse
rigogliosa e la ragazza chiede “Cosa canti?” e lui risponde “La bellezza del
mondo”. E poi continua “Perché davanti a me?”, e lui “Perché tu sei la bellezza
del mondo”. Sappiamo la storia come va a finire ed è così: cantiamo sempre quello
che ci manca, se non fosse stato così non avrei mai scritto “Luci a San Siro”: se fosse tornata lei
o l’avessi cercata io avrei perso lei e la mia canzone».
Ma il
nostro grande cantautore da cosa trae spunto per la sua musica? «Beh, mi piace divertirmi e sperimentare –
racconta -. Mi piace molto il modo di trattare la musica dei napoletani, il
rock di Springsteen, le sinfonie di Puccini: la musica è davvero un mondo
magico in cui perdersi».
Roberto
Vecchioni è anche docente e non manca da commentare il mondo della scuola: «C’è un grande equivoco nella scuola italiana
perché ci sono pochi soldi e presidi e insegnanti devono fare quel che possono.
L’altra sciocchezza è stata mettere assieme gli studi classici e quelli tecnici
o avere così tante cose che ci hanno fatto perdere l’uso della testa, della
mente».
La ricetta? «Ci vuole uno stuolo di educatori
divertenti che stimolino i ragazzi e diano loro la concezione di libertà, cultura,
e che provino a dir loro che non devono aver paura di nulla nemmeno di
piangere: ogni creatura umana ha il diritto di poter piangere».
E poi
prende ad esprimere la sua idea del tempo.
«Non dico nulla di nuovo, ne parlava
già San’Agostino, Bergson, è il tempo verticale – dice sorridendo -. Abbiamo un tempo orizzontale che ci inganna,
ci frega, un passato che ci rende tristi ed un futuro che ci fa paura.Questo tempo, invece, bisogna
cristallizzarlo, guardarlo in verticale, osservare gli eventi uno dopo l’altro,
vedere i ricordi come tangibili. Del futuro non dobbiamo avere paura: bisogna
immaginare e sognare il futuro e queste a volte si realizzano. A me è capitato
per 90 giorni di seguito di cantare a letto “Chiamami ancora amore”, salire sul palco di Sanremo, vedere Gianni
Morandi che mi presentava, ascoltare il voto e vincere: è stato così per
giorni e alla fine si è rotto le palle anche il sogno», ride.
Racconta della
compagna, Daria Colombo: «La mia ragazza era ed ora è una donna
bellissima. Quando eravamo fidanzati entrammo in questa casa sul lago di Garda
piena di errori e sbagli strutturali e ci siamo immedesimati in questi, siamo
cresciuti assieme a lei, eravamo quell’anima ed è stato drammatico venderla.
Daria è nutrimento costante: passionaria, combattiva, si sbatte anche troppo
(!), è idealista ed io la amo proprio perché è così».
Sul palco
del “Traetta” arriva anche il regista e caro amico di Roberto, il bitontino Raffaello Fusaro con cui l’autore
milanese improvvisa uno splendido dialogo con suo padre Aldo.
«Mio padre era napoletano e dopo
quarant’anni a Milano, parlava ancora napoletano – ridono tutti -. Una sera ricordo bene, anche se facevo la prima elementare, che mi
portò in un posto e c’era Eugenio
Montale: mi disse fosse un poeta. Così chiesi: “Papà, cos’è un poeta”, e mi
rispose “Un poeta è colui che vede quello che gli altri non vedono”.
Mio padre andò in bagno, così mi feci forza e andai dal poeta che avevo capito
di chiamasse “Un Tale” e non Montale e chiesi: “Se lei è un
poeta e vede tutto, mi sa dire dove è finito il mio trenino elettrico?”.
Quando lo dissi ad Aldo si arrabbiò e disse “ma come ti sei permesso?” e mi
giustificai dicendo: “Tanto papà non vede un bel niente!”».
Il finale
è tutto per la mamma Eva: «Mi è dispiaciuto non poterle tenere la mano
fino all’ultimo istante, questo episodio mi ha tanto ferito. Scrissi in quell’occasione
“Dimentica una cosa al giorno” per raccontare che, a volte, la felicità si
maschera da dolore».