È trascorso oltre un anno da quando Monsignor Francesco Savino ha lasciato
la sua Basilica dei Santi Medici, per andare in Calabria a ricoprire la carica
di vescovo alla diocesi di Cassano allo Jonio.
Ieri, a più di dodici mesi da quel lieto
evento, don Ciccio, come lo conoscono tutti i bitontini, è tornato a celebrare
nella sua Bitonto in occasione del primo anniversario. Ha presieduto infatti,
nella chiesa dedicata ai due santi anargiri, la celebrazione eucaristica «per ringraziare il Signore per il dono del
suo servizio episcopale ad un anno dalla sua consacrazione».
Tanta l’attenzione, nella sua omelia, ai più
deboli, agli emarginati, ai “vulnerabili”
della società.
«Oggi il
Vangelo ci pone una domanda fondamentale. Come dobbiamo vivere il mondo e nel
mondo? Quale stile di vita dobbiamo adottare noi cristiani?» si è chiesto don
Ciccio invitando alla riflessione sul proprio stile di vita i tanti fedeli
giunti nella basilica per accoglierlo: «Il
rischio che i cristiani vivono oggi è quello della mondanizzazione, di vivere
senza lasciare traccia, senza marcare la differenza, alla “meno peggio”.
Rischiamo di vivere un cristianesimo scialbo, insipido. Invece noi dobbiamo
essere sale e luce verso gli altri e possiamo esserlo solo se viviamo una
relazione positiva con Dio e con Cristo».
Tre sono le sfide che oggi i cristiani,
secondo il vescovo, hanno di fronte: «Il
primo è la scristianizzazione che sta vivendo l’Europa, che negli ultimi tempi
ha smarrito l’anima e i valori su cui i padri fondatori hanno voluto forgiarla.
La seconda sfida è l’indifferenza religiosa che caratterizza sempre più
persone. Vivere con o senza Dio è la stessa cosa. Anzi per certi versi è
addirittura meglio vivere senza. La terza infine è l’invasione della tecnica,
che sta prendendo il sopravvento sulla natura umana. Dobbiamo invece dialogare
con la modernità, senza presunzione o fondamentalismi».
Un concetto spiegato dall’ex parroco della
basilica ricorrendo alle parole di San Paolo nelle sue lettere: «Non conformatevi alla mentalità di questo
secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la
volontà di Dio, ció che è buono, a lui gradito e perfetto».
«Da quel
fatidico 2 maggio, giorno della mia consacrazione, sento la responsabilità di
essere luce, di essere credibile per far apparire credibile, attraverso me
stesso, Cristo. Qui, nella basilica che mi ha visto crescere, come in Calabria,
in quella terra che ora sento come casa mia» ha continuato, ringraziando
Dio per averlo chiamato ad essere suo pastore «in una terra bella ma difficile, con tanti problemi come la diffusa
disoccupazione. È una sfida difficile, ma esaltante».
«Guai se
un vescovo vive nella ricerca di consenso, di applausi. Il principale compito a
cui è chiamato un vescovo è il discernimento, capire cioè cosa Gesù chiede.
Questa domanda dobbiamo porcela tutti noi» è stato l’invito rivolto ai
fedeli: «Il mio obiettivo, come vescovo,
è che, in ogni persona che incontro, in ogni progetto pastorale a cui
partecipiamo, grazie alla mia presenza si incontri Cristo. Se un vescovo non riesce
in questo compito fallisce nella sua missione, perché essa consiste nel creare
le condizioni affinché si incontri Cristo, si perda la testa per lui».
Infine, citando San Gregorio Magno, ha chiuso
l’omelia manifestando la volontà di essere un “vescovo fatto popolo”.