“No, dai, non mi dire. Dopo tanti anni, sei diventato di ruolo. Dai, non ci credo. Mou ava chiouv“.
Sogghigna beffarda al cell la voce lontana che si dice amica – di uno che con un gruzzoletto di punti ha preso la cattedra vita natural durante in terra salviniana – e azzarda un’ardita previsione meteo nel pieno di una stagione così incessantemente asfissiante come questa.
Detto, fatto, invece.
Il guaio è che, dopo la fatidica firma, ho da correre fantozzianamente incontro alle agognate vacanze.
Fragore di trolley sulle chianche esauste.
Il cielo, improvvisamente torvo e plumbeo, prende a calare goccioloni che implacabili centrano la mia pertinace calvizie.
Corsa trafelata e treno della Bari nord artigliato per un capello (ironia della sorte, per me).
È quello giallo, indi nuovo.
Salgo, mi accomodo e attendo la partenza imminente.
Presto nel vagone le luci s’accendono ad intermittenza manco fosse un presepe.
Il diluvio riga copioso i finestrini.
Tardi arriva l’annuncio: “Il treno è in avaria“.
Non consola il ricordo dell’irresistibile battuta di Totò, che a simile avviso esclama entusiasta: “Ah, allora siamo arrivati“.
L’altoparlante consiglia il prossimo convoglio per il capoluogo di lì a mezz’ora proprio mentre sul terzo binario ne arriva un altro canarino.
Mi scapicollo giù precipitosamente nel sottopassaggio e mi isso con scarse speranze sul nuovo treno.
Bari, in volo verso la stazione centrale.
Il nubifragio sta mietendo vittime nel Salento. Impazzisce il pannello che elenca partenze e arrivi.
L’unico intercity partito puntuale è quello che io ho perduto di un soffio per cause di forza maggiore (o minore, a seconda dei punti di vista).
Rifaccio il biglietto e mi piazzo con discreto anticipo sul terzo binario, giusto per non perdere il Freccia Argento che arriverà dopo due ore e un quarto.
Sulla banchina si alternano spazientiti viaggiatori che si scambiano opinioni tristi su questa Italia dove nulla va per il verso giusto.
Solo due ragazze si divertono da matte sbaciucchiando in contemporanea un amico, che le fa impazzire rappando geniale e ignorante i successi della musica nostrana.
A “un salto dove il passo è più blu” immagino siano partite le denunce di Mogol in strenua difesa dell’immortale amico Lucio.
Ad un certo punto, il trio inesauribilmente allegro si spara un autoscatto per immortalare il tabellone che riporta il biblico ritardo del treno che attendono e non quello clamoroso delle loro sostanze grigie.
Dopo 135 minuti, comunque, ecco sferragliare fischiando l’argenteo serpentone.
Cerco un capotreno per avere lumi sugli orari delle coincidenze che non coincidono più con l’ora in cui approderò in Abruzzo.
L’uomo in divisa verdognola scuote il capo, sconfortato: “Oggi il maltempo ci ha tirato un brutto scherzo, oggi è andata così, è tutto precario“.
“No, vi prego, io non più“, vorrei disperatamente urlare, ma manco riesco a sibilarlo e stremato crollo sul sedile, in attesa di scorgere scintillante il dannunziano mare, prima o poi.
Più poi che prima, purtroppo…