Alle ultime elezioni, a livello nazionale, solamente il 53% degli
elettori si è recato a votare. Percentuale che tende ad aumentare al 65%
laddove si è votato anche per le amministrative.
Un dato, quello dell’astensionismo, che cresce sempre più, insieme alla
percentuale di votanti che sceglie di dare la propria preferenza verso nuovi
soggetti politici nati in contrapposizione ai partiti, che nel frattempo, negli
ultimi due decenni, hanno cambiato identità, abbandonando le caratteristiche
dei partiti di massa che hanno caratterizzato i primi cinquanta anni della
Repubblica Italiana. Il rinnovamento è da due decenni il nuovo imperativo. Ed,
in effetti, il panorama politico è molto cambiato. Ma la partecipazione
politica è in una crisi che sembra essere senza uscita.
Dell’argomento si è parlato ieri in un incontro, organizzato da Città
Democratica e Progetto Comune, dal titolo “Crisi della partecipazione e rinnovamento della
politica”, tenutosì lunedì.
«Le cifre enormi dell’astensionismo indicano, più che disinteresse, un
mutato interesse verso la politica, non sorrisposto dalle attuali forze
politiche. Gli astenuti sono elettori senza casa, che hanno messo il loro voto
in deposito» è il parere di Francesco Brandi (Città Democratica) che ha
introdotto l’incontro insieme a Luca Scaraggi (Progetto Comune).
E, citando Canfora e Rodotà, continua sull’Italicum: «Attraverso premio
di maggioranza e soglia di sbarramento si tenta di porre rimedio agli effetti
sgraditi dell suffragio universale, facendo in modo che, tramite lo strumento
del voto utile, si convincano le persone a votare al centro, facendo perdere
rappresentatività ai ceti meno produttivi».
«Il cammino verso la democrazia in Italia si è interrotto il 16 marzo
’78 (giorno della strage di via Fani, in cui Aldo Moro fu rapito, ndr)»
aggiunge Gaetano Piepoli, deputato di Centro Democratico, che ricordando la
liquidazione della Prima Repubblica, caduta con la crisi dei partiti che ne
erano stati protagonisti, afferma: «Dalla partitocrazia dei partiti, siamo
passati ad una partitocrazia senza partiti. I partiti erano portatori degli
interessi di un blocco sociale di cui non erano meccanici portatori, ma filtri
che li rielaboravano. Il venir meno di questi soggetti ha portato al trionfo
del trasformismo e del localismo. Tutto ciò è frutto sì della crisi economica,
ma è anche una crisi politica dovuta all’incapacità di gestire le
contraddizioni del nostro modello di sviluppo. È una crisi non solo italiana ma
europea, come dimostra anche la crisi greca. Dovuta anche al fatto che i popoli
europei si trovano ormai a decidere i governi, ma non le politiche. Ci
troviamo, dunque, da una parte il gioco del Monopoli, che serve a garantire ad
una coalizione rappresentativa della minoranza del paese, la maggioranza in
Parlamento; dall’altra una maggioranza che diserta le urne, rifiuta i
tradizionali soggetti politici e che attraverso il web prova a giocare in
proprio, creando un nuovo tipo di partecipazione, diversa da quella che un
tempo era appannaggio dei partiti. La politica nazionale deve tornare a farsi
carico dei problemi perche essa è la principale vittima della palude del
localismo».
All’incontro ha partecipato anche Alfredo D’Attorre, deputato del
Partito Democratico, appartenente alla minoranza non renziana: «In Italia il
rapporto tra governati e governanti è sempre stata difficile. È stata una
parentesi difficile quella in cui le forze politiche popolari hanno fatto un
vero e proprio miracolo saldando quel rapporto».
E, parlando al presente, esorta: «Quando arriva a votare il 50% degli elettori
anche per il sindaco, che in questi anni è stato presentato come il rimedio
alla crisi della politica, qualche domanda dovremmo farcela. Dopo venti anni,
questo modello, basato sull’idea che entro la sera delle elezioni si debba
sapere con esattezza chi ha vinto e che la vittoria sia riconducibile al
sindaco, ha funzionato? Questo non per tornare al vecchio proporzionale, in cui
le forze politiche decidevano al chiuso delle segreterie partitiche, ma per
tentare di ristabilire un equilibrio. La stessa logica del maggioritario
all’italiana, dell’investitura diretta plebiscitaria per rilegittimare la
politica ha guidato tutte le riforme elettorali di questi ultimi due decenni».
Sotto accusa da parte di D’Attorre anche l’accordo di Maastricht, con
cui gli stati nazionali «hanno rinunciato alla sovranità su temi quali moneta,
banca centrale, bilancio, riallocazione delle risorse, per consegnarla ad una
governance di cui anche gli europeisti più entusiasti riconoscono la scarsa
affidabilità democratica. Non è casuale che tale passaggio abbia coinciso con
il passaggio al maggioritario, estraneo alla cultura politica italiana. Esso ha
svuotato la centralità del Parlamento a favore dell’esecutivo. Era necessaria
una svolta tecnocratica che garantisse le politiche sovranazionali. E questo
porta al venir meno della centralità di temi come il lavoro».
Il venir meno del ruolo del Parlamento, per D’Attorre, spiega anche
l’attenzione sui redditi dei politici: «I cittadini sentono sempre più che il
Parlamento non è più centro decisionale».
In quest’ottica, per il politico, l’Italicum rappresenta «il compimento
dell’illusione che si possano migliorare le condizioni dei cittadini non con
politiche di investimento, non incidendo nei processi decisionali europei, ma
consentendo ad una minoranza di governare, decidere. Ma non si restituisce
legittimità alla politica con artifici elettorali. Non credo che questo sistema
abbia reso un buon servizio».