Don
Ciccio Savino vescovo di Cassano allo Ionio, terra consacrata all’armeno San
Biagio di Sebaste.
Una
notizia, quella della sua ordinazione episcopale, che colpisce anzitutto per la
sede affidatagli. Ma a questo veniamo dopo.
Cominciamo
col dire che il ruolo del vescovo, nella chiesa, non attiene solo a pure
logiche di gestione, cura, gerarchia.
Si
parla, non a caso, di “ordinazione episcopale”. Ebbene, questo significa che si
è di fronte ad un ordine, ad un ministero.
E
tutto ciò fa parte della fede del credente. È, dunque, un fatto di grazia.
L’episcopato, come ministero, è citato nel Nuovo Testamento da Paolo.
Il
vescovo, etimologicamente, è però un “sorvegliante”, uno che controlla. Sempre Paolo,
nella lettera a Tito: “Il vescovo
infatti, come amministratore di Dio, dev’essere irreprensibile: non arrogante,
non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto”
(oggi molti studiosi non ricollegano direttamente al folgorato sulla via di
Damasco il testo, ad ogni modo è testimonianza diretta del modus cogitandi, sul
tema, dei primissimi cristiani).
Paolo
parlerà del vescovo anche nella lettera ai Filippesi.
Ma
ecco gli Atti: “Vegliate su voi stessi e
su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi
a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue”.
Non
solo: siamo in presenza, come si accennava, di un ordine sacro, vale a dire,
per i cristiani, uno dei principali uffici legati al diretto vivere ecclesiale:
diacono, presbitero, vescovo.
Saràpapa Cornelio (251-253) il primo a discutere di ordine episcopale, nella famosa
lettera al vescovo di Antiochia, Fabio.
Ancora
oggi il Catechismo della chiesa cattolica ricorda: “L’ordine è il sacramento grazie al quale la missione affidata da Cristo
ai suoi apostoli continua ad essere esercitata nella chiesa sino alla fine dei
tempi: è, dunque, il sacramento del ministero apostolico”.
Espressione
chiave, quest’ultima. I vescovi, per i cristiani, sono i successori degli apostoli.
Esercitano tre ministeri: insegnamento, governo pastorale, santificazione.
Quello dell’ordine sacro, inoltre, per diaconi, presbiteri e vescovi, è un sacramento
a tutti gli effetti, uno dei sette, cosa che spesso i cristiani per abitudine
dimenticano o non sanno.
Questo
è il vescovo, assieme, s’intende, alle logiche di “governo” della sua diocesi. La
premessa non ci sembrava trascurabile.
Veniamo
al pastore bitontino di fresca nomina.
Una
notizia che ha commosso chi conosce e stima l’interessato e che non può
lasciare indifferenti, anche nella sola logica civica e cittadina, persino non
credenti e agnostici.
Un
bitontino vescovo non capita tutti i giorni e non a caso il ‘900, includendo
anch’egli, che diventa vescovo nel 2015 ma che nasce nel XX secolo, ne ha avuti
solo tre.
Sarebbe
anche fuori luogo e ipocrita nascondere una certa consapevolezza da parte degli
osservatori più informati.
Di
don Ciccio “vescovo” si parlava da anni. Eppure, proprio negli ultimi mesi, non
tantissimo, almeno pubblicamente. Segno che quando le cose accadono, come
vogliono i vecchi proverbi, non si dicono. Ma si fanno.
La
vera notizia, forse, è stata anche la sede (tempo fa qualcuno parlava per lui
di Castellaneta, poi finita nelle cure pastorali del toscano Claudio Maniago),
scelta a nostro umile parere in totale concerto tra il pontefice Francesco, la
Congregazione per i vescovi (guidata dal prefetto Marc Ouellet, cardinale
canadese a suo tempo tra i “papabili” per il dopo Benedetto) e l’attuale segretario
generale della Conferenza episcopale italiana, quel Nunzio Galantino, foggiano
di Cerignola, predecessore a Cassano di don Ciccio, presente proprio a Bitonto
qualche mese fa e legato da totale sintonia con la visione di mondo e,
soprattutto, di chiesa che nutre anche il neo-vescovo.
Terra
difficile, quella di Cassano allo Ionio.
Siamo
di fronte ad uno dei contesti più critici nella lotta alla ‘ndrangheta.
La
diocesi abbraccia anche le terre del Pollino, siamo dunque al confine con la
Lucania, Calabria alta.
Per
anni, la presenza di un contesto mafioso, nel cosentino, è stata ridimensionata
dai media, almeno rispetto alla presenza asfissiante di questa nella Locride.
Ci ha pensato poi la faida drammatica, tra anni novanta e inizio duemila, a far
aprire gli occhi a tutti verso la Sibaritide (Sibari, nota località marina, è
frazione di Cassano).
E
l’Italia tutta si commosse, nel gennaio di un anno fa, quando, proprio a Cassano,
dei killer senza un briciolo di umanità nel cuore non ebbero pietà per la
giovanissima vita di Nicola Campolongo, pargolo di tre anni, per tutti “Cocò”,
ucciso con il nonno, probabile futuro pentito (operava nel mondo dello spaccio)
e per questo freddato e punito, assieme al piccolo innocente.
Il
vescovo Galantino lesse, nel volto carbonizzato del bimbo, un muto “appello
senza parole”. Ecco, il nostro don Ciccio va in una terra così.
Terra
bella, ovviamente degna di essere ricordata e ammirata per storia, cultura e
arte ma che spesso, per l’indiscriminata malvagità umana, è assurta agli onori
delle cronache per queste terribili esperienze di dolore e morte.
Tra
i predecessori più illustri di don Savino nella diocesi di Cassano si ricordano:
il futuro papa Pio IV Medici (XVI sec); Evangelista di Milia (vescovo dal 1889
al 1898), cappuccino poi presule a Lecce; Pietro La Fontaine (1906-1915), dopo
patriarca a Venezia, di cui è aperta la causa di beatificazione; il servo di
Dio Raffaele Barbieri, vescovo dal 1937 al 1968.
Ultimo,
doveroso riferimento. Come si diceva, don Ciccio va ad unirsi, almeno con attinenza
al Novecento, ad altre due figure di bitontini vescovi.
Tre
persone diverse. Tre storie, anche ecclesiali, davvero differenti.
Gli
altri due vescovi sono: Oronzo Caldarola, nato addirittura nel 1871 e morto nel
1963, per un quarantennio esatto (1915-1955) a capo della diocesi di Teggiano
(Sa) e Cristoforo Palmieri, missionario, vincenziano come Caldarola stesso,
attualmente vescovo a Rrëshen, in Albania.
Palmieri
è nato a Bitonto il 24 maggio del 1939. È vescovo, per volere di papa
Ratzinger, dal 2005, dopo gli anni in parrocchia a Napoli, Lamezia Terme
(anch’egli in Calabria, dunque) e Lecce.
È
in Albania dal 1993. Della sua attuale
diocesi è stato, in precedenza, amministratore diocesano e apostolico.
Due
bitontini, dunque, contemporaneamente vescovi in parti del mondo e d’Europa
solo in apparenza diverse.
Se
differenti per stile e carattere, entrambi vivono e vivranno nel sud ferito e
difficile e se Palmieri conosce la parte economicamente meno florida
dell’Albania, don Ciccio Savino sarà vescovo in una regione, la Calabria,
sintesi dei ritardi e dei disagi del sud più periferico.
Terra
invece con mille risorse. Terra che dovrà nutrirsi sempre più di quella
speranza che muove, anima. E che poi fa vivere.
Don
Ciccio, si dice, è un uomo di fatti. Ma lo è anche di parole.
Una
sagacia dialettica che spesso ha saputo porre basi e poi contribuire a creare
fatti indiscutibili.
Un’abilità,
in opere e parole, che qualcuno ha talvolta visto anche come l’impalcatura per
una sovraesposizione istituzionale e di “potere”.
Su
questo si rifletterà serenamente (e abbiamo di fronte a noi un uomo che ha
chiesto “perdono”: una cosa non da tutti).
Adesso,
però, don Ciccio dovrà trovare parole nuove (o, se si vuole, antiche),
espressioni di speranza per i suoi fratelli e fedeli di terra di Calabria.
Osiamo
pensare ne sia capace.