Imi. Internati
militari italiani. Una pagina che profuma di storia, ricordo, memoria
e di rimozione. Anzi, rimozione intellettuale di massa.
Già,
perché il dramma dei tantissimi soldati italiani deportati nei lager
nazisti dopo l’8 settembre 1943 è stato per tanti anni, forse
troppi, nascosto e sottaciuto. Come se fosse diverso dalla Shoah o
dalle Foibe.
In
occasione del 70esimo anniversario dell’apertura dei campi di
concentramento tedeschi, ci ha pensato il Circolo Unione (e il
daBITONTO) a ricordare questo capitolo della nostra storia. Da un
lato, attraverso una mostra fotografica curata da Laura Fano e
Mimmo Ciocia, e che, tramite immagini scattate in modo clandestino
dall’interno dei campi di sterminio, documenti e carte dell’epoca,
pagine di diari, rievoca la sofferenza degli internati.
Dall’altro
con un convegno moderato da Marino Pagano, che ha focalizzato il suo
intervento su Alessandro Natta, segretario del Partito comunista
italiano dal 1984 al 1988, e sul libro “L’altra resistenza” del
1954, nel quale l’ex deputato racconta (anche) l’esperienza del suo
internamento nel lager di Rodi. Già, perché quella dei militari
italiani deportati è stata una resistenza, magari non armata, in
quanto hanno
realmente resistito al nazifascismo, rifiutando di aderire alla
Repubblica di Salò e di lavorare per il Terzo Reich.
Il
padrone di casa, Giuseppe Paciullo, si è invece soffermato su due
parole: memoria e resistenza. Quella di oggi, «perché
– ha
detto – dobbiamo
combattere per la libertà, i diritti, e per debellare la violenza
contro le donne».
Laura
Fano (il cui nonno, Mario, è stato un internato) ha raccontato il
dramma degli Imi. Che furono davvero tanti: oltre un milione sono
stati i deportati nostrani nei lager nazisti di tutta Europa, di cui
oltre 716mila militari. Pochissimi quelli tornati a casa, e di questi
molti sono deceduti qualche anno dopo a causa di malattie contratte
durante la prigionia.
D’altronde,
sopravvivere nei campi di sterminio era quasi impossibile: già il
trasporto avveniva con treni vergognosi privi di ogni minima
condizione igienico-sanitaria. Poi, nei lager, dove tutti venivano
immatricolati e marchiati con un segno di riconoscimento, la vita era
terribile. Costretti a lavorare come schiavi. Senza alcuna delle
tutele per i prigionieri di guerra previste dalla Convenzione di
Ginevra del 1939. Senza la possibilità di un intervento della Croce
rossa. La speranza di vita era di massimo due mesi, anche se molti
resistettero fino anche più di un anno e mezzo. Poi, nel 1945,
arriva la svolta grazie all’arrivo degli alleati, che mostrano al
mondo l’orrore.
Come
quello che hanno vissuto anche il nonno e il papà di Giovanna
Sammati, presidente del Comitato per la legalità, attori attivi
della sconfitta di Caporetto nella prima guerra mondiale e
dell’internamento nel campo di Stammlager nella seconda. E proprio il
papà di Sammati, Giovanni, il 27 gennaio è stato insignito della
medaglia d’onore consegnata in Prefettura a Bari.