Caro Michele, sono lontano da Bitonto e per questo non credo che riuscirò a venire per il tuo funerale.
E, comunque, non penso che sarò l’unico a non avere la forza di entrare in chiesa, oggi pomeriggio.
Perché, è vero, gli antichi dicevano che muore giovane chi è caro agli dei.
Io sono convinto che sia solo una porcheria.
È come strappare con crudeltà un ramo quando è ancora verde e profumato.
Come lacerare le ali di una piccola rondine assetata di cielo.
Come rubare le stelle alla notte più scura.
Che classe la tua, Michele.
Indimenticabili, tutti.
Ognuno con la sua storia, materiata di difficoltà e progetti, di travagli e insicurezze.
E quella scuola poi, l’Istituto professionale “Tommaso Traetta”, un’avventura che ti resta tatuata sull’anima.
Nicola, Titti, Ilaria, Anna, Alessandro, Leonardo e tutti gli altri…
Ogni giorno poteva succedere qualsiasi cosa, ma non si smetteva mai di sorridere.
Scherzi a volontà.
Era come se sul veliero della vita il soffio del vento fosse salutato come un invito ad andare avanti, qualsiasi cosa accadesse, con allegria.
E tra di loro, c’eri tu, Michele.
Avevi occhiali sinceri, cioè di quelli che non nascondono la luce degli occhi.
Che era sempre leggera.
Proprio come il tuo modo di intendere l’esistenza.
Quasi tu avessi un cuore antico – a proposito, mica lo so se riusciranno a chiuderlo fra quattro assi di legno, tanto grande e pieno di sogni era…-, sfoggiavi una filosofica saggezza che ti aiutava a superare gli ostacoli.
Ricordo che ti piaceva andare sulle colline murgiane a giocare a far la guerra, come i bambini. Ma subito aggiungevi per rassicurare il mio sguardo accigliato: “Prof, ma non ci facciamo niente”. In fondo, ti piaceva recitare, e tutto era per te ‘res ludica‘.
Gli anni sui banchi passarono e, subito dopo, giunse la notizia della tua malattia (sarcoma addominale, qualcosa di sinistro già dal nome).
Ti chiamavo ogni volta che potevo.
E tu, tra un intervento e un ciclo di cure, lì a rasserenarmi: “Prof, tutto ok, il peggio sembra essere passato“.
Caspita, Miche’, eri tu che per consolarmi davi una pacca sulla mia spalla anche quando ti incontravo e ti vedevo smunto e provato.
Poi, questa mattina, l’epilogo che non avrei mai voluto sapere.
Mi sono detto: “Ciao Michele, arrivederci” e sono corso in pineta per cercare una luce, anche minuscola, fra i rami degli alberi alti e muti.
Il cielo, però, si è incupito d’improvviso e s’è messo a piangere.
Ed io, per fortuna, non saprò mai se queste che rigano il mio volto siano gocce di pioggia o lacrime…