L’estate, si sa, è il tempo del mare e del sole, delle passeggiate al
fresco serale, del relax per recuperare energie fisiche e mentali dopo un anno
di lavoro, il momento utile per dedicarsi magari a tutto ciò che, preso dalla
faticosa quotidianità, non riesci a fare. Ed ancora, è il periodo in cui anche
la vena calcistica presente in ognuno di noi va in ferie, perché lontani dal
calcio giocato, seppur ci sia stato un Mondiale chiuso da poco, avaro di
soddisfazioni.
Ed allora tra le tante cose da poter fare in estate, ti capita di coniugare
la lettura di un buon libro, in spiaggia, sotto l’ombrellone, con la brezza ed
il profumo del mare che ti allietano. Un libro particolare, non “uno qualsiasi”.
Un libro sul calcio, proprio perché a volte di quella “malattia” non riesci
davvero a farne a meno.
Stavolta, però, è un libro che parla di emozioni legate a quel pallone che
rotola su un rettangolo verde di gioco. Un volume che racconta i tre mesi più
folli vissuti da una città e dalla sua squadra di calcio.
“Che storia La Bari” (edizione Gelrosso) raccoglie 25 racconti popolari scritti da chi, in un
modo o nell’altro, è stato stregato dall’affascinante ed esaltante avventura
della squadra biancorossa nell’ultima fase dello scorso campionato di Serie B.
Nato da un’idea di Mirko Cafaro e Cristiano Carriero, con l’introduzione
del neo presidente Gianluca Paparesta,
“Che storia La Bari” è un viaggio viscerale e sentimentale tra i ricordi e le
passioni di chi ha vissuto, soprattutto emotivamente e da più prospettive, una
cavalcata che, senza dubbio, resterà indelebile nella memoria di chi ama il
calcio, a prescindere dai colori e da inappropriati quanto improponibili campanilismi.
Perché non necessariamente bisogna essere tifosi del galletto per ammettere ed
apprezzare quel che di miracoloso è successo a Bari tra marzo e giugno scorsi.
In fondo, chi vi scrive è uno “strisciato del nord” ma al Bari è da sempre
legato. Qualcuno parlerebbe di doppiofedismo, ma che colpa ne ho se da piccolo
mi ci hanno portato più al San Nicola che a San Siro, la casa del mio Milan? O
al “Città degli Ulivi”, che oggi a dire il vero frequento spesso per motivi di
lavoro?
Per il Bari c’è affetto sincero, la mia vicinanza, che sia da casa dinanzi
alla tv o all’astronave di Renzo Piano, con il sole a picco o una bufera d’acqua
che ti inzuppa in un freddo giovedì santo. In fondo, nel calcio – così come nella
vita e nell’amore – al “cuor non si comanda”, e non c’è
campanile o disapprovazione altrui che tengano che possano fermare un
sentimento verso una squadra. Il calcio è un turbinio di sensazioni, sentimentalismo
e depressione, ricordi ed aneddoti, che solo colui che li prova può davvero
raccontare.
Ed ognuno, a prescindere dalla sua terra d’origine, è libero di tifare e amare quel
che crede.
Quella del Bari (o de La Bari) è la storia incredibile di una squadra
fallita, con i libri contabili consegnati al Tribunale di Bari dalla famiglia
Matarrese. Da quell’8 marzo, è diventato un viaggio che oscillava tra il buio
delle questioni societarie e la luce splendente per le gesta di quei ragazzi di
biancorosso vestiti. Quei giocatori che, voglio immaginare, all’indomani del
fallimento, si sono guardati negli occhi all’interno dello spogliatoio ed hanno
deciso cosa fare: dimostrare a tutti di essere prima uomini che calciatori e
professionisti oppure affondare assieme alle questioni societarie?
Bene, la risposta è nei numeri: tre mesi dove il Bari è passato dall’orlo
del baratro e della retrocessione in Lega Pro (la Serie C, giusto per
intenderci) al sogno chiamato Serie A. Una rimonta all’inizio impossibile ma
poi sempre più realistica.
Tra selfie, accoglienze in aeroporto e alla stazione, cori sotto la curva,
video in giro per la città, Bari ed i loro tifosi hanno costruito un’alchimia
forse unica nel panorama attuale del calcio. Lo stadio San Nicola pian piano si
riempiva di spettatori, diventando un fortino, quell’insieme di voci che,
trasformandosi in un ruggito, riuscivano a piegare qualsiasi resistenza.
Nel frattempo, però, si consumava la grande paura: due aste per l’assegnazione
della società andate deserte. Alla terza, ecco l’Habemus Presidente: Gianluca
Paparesta, ex arbitro.
Rinfrancato forse dalle certezze societarie, l’onda biancorossa ha
continuato a macinare e mietere vittime sul suo percorso, riuscendo a
raggiungere i playoff col Novara, a stravincere il quarto di finale a Crotone,
a giocarsi l’accesso alla finale con Latina. La storia si è chiusa qui, con l’uscita
di scena senza aver mai perso.
La Bari è rimasta in Serie B ma con la consapevolezza di aver scritto una delle
più belle pagine di sport e di calcio degli ultimi anni.
In un mondo, quello del pallone, dove la Federazione cola a picco e si
spacca, la nostra Nazionale è uscita distrutta dal mondiale brasiliano, i
nostri club in Europa contano zero, e ogni tanto arriva lo scandalo di turno a
devastare tutto, bene, la Bari è un qualcosa che ti riconcilia e ti fa credere
che in fondo amare il calcio non è poi così male. Perché questi ragazzi, che
non percepivano soldi e che sono andati a farsi le trasferte in treno per
risparmiare, hanno dimostrato di essere prima uomini che tutto il resto. Ed
hanno onorato fino in fondo quella maglia, cullando un sogno e trascinando
dietro di sé una città ed un territorio. E soprattutto, cancellando
definitivamente quella macchia del calcio scommesse che sporcava Bari e i
baresi.
Da questo libro ho imparato sicuramente che «il bello del calcio non è la vittoria. Quella, semmai, è la ciliegina
sulla torta, l’estasi collettiva. C’è molto da imparare piuttosto dalle
sconfitte. Perché scendere in piazza quando si vince è semplice, è molto più
difficile andare all’aeroporto a consolare i giocatori dopo un’eliminazione
bruciante».
Magari chissà, questa storia di amore, professionalità ed attaccamento alla
causa potrebbe essere un esempio da seguire per tanti, dalla Serie A all’ultima
categoria. Ed uno stimolo per chi ha qualcosa di bello da raccontare nel calcio,
a poter scrivere un bel libro da leggere d’estate, in spiaggia sotto l’ombrellone.