C’è un filo azzurro che lega le generazioni italiane al di là di
ogni “fede”, di ogni campanile, di ogni familismo: è il racconto del Belpaese
che si innamora, tifa, esulta e si dispera per la sua nazionale ai Mondiali di
calcio.
All’inizio furono quelle dei Meazza, dei Piola e del
“commissario unico” Vittorio Pozzo, campioni nel ’34 e nel ’38, trasformati
in eroi nazionali dall’epopea del regime fascista anche grazie alle
radiocronache del mitico Niccolò Carosio.
Dopo il lungo tunnel della guerra e della
ricostruzione, illuminato dalle gesta del Grande Torino e dalle lacrime di
tutti per la tragedia di Superga, il romanzo dei mondiali scrive un’altra
pagina con i mondiali di Londra. “Quelli del ’66, la regina d’Inghilterra era Pelè”
come ha scritto e cantato Antonello Venditti. Ma per noi fu subito Corea.
Quella parola è entrata nel vocabolario popolare come sinonimo di
disfatta nazionale dopo che fummo cacciati dal mondiale da un gol del dentista
Pak Doo Ik.
Tornammo ad esaltarci quattro anni dopo in Messico
allo stadio Atzeca e la storica vittoria sulla Germania per 4 a 3 con
l’indimenticabile gol di Rivera.
Da allora una serie di trionfi contro i
“panzer”, per ridestare l’orgoglio dei nostri emigrati e per dimostrare che
almeno nel pallone la fantasia italiana è sempre al potere.
E infatti nell’82, il trionfo in Spagna fu ancora
contro i tedeschi e immagini che la memoria non cancella: l’urlo di Tardelli,
l’esultanza di Pertini, la pipa di Bearzot, le mani di Zoff sulla coppa, la
voce di Martellini.
E, un attimo dopo, i primi vagiti di Antonio Cassano che
venne al mondo proprio nella più gioiosa delle magiche notti azzurre.
Poi le delusioni del ’90, con i mondiali persi in casa
e i napoletani a fare il tifo per l’Argentina di Maradona e quelli del ’94 con
il rigore sbagliato anche da Roberto Baggio, divin codino ma quel giorno
castigato dal cielo.
Ma il cielo tornò azzurro a Berlino nel 2006, la
testata di Zidane a Materazzi e quell’urlo che attraversò come un brivido di
piacere e di liberazione tutta la penisola quando Fabio Grosso segnò il rigore
che fece piccola la grandeur dei francesi.
Tra qualche ora si riparte, si ricomincia. La scuola è
finita, le ferie ancora una promessa, i tedeschi continuano a rivendicare il
“rigore” ( ma non sui campi di calcio) e noi abbiamo rispolverato i tricolori
che già sventolano sui balconi. Siamo fatti così, pronti a scatenarci e a
commuoverci per il patriottismo da condominio. Il pallone ci fa ancora
innamorare, come dimostra la favola bella del Bari (o della Bari)
di quest’anno. Ci esaltano le sfide, le missioni impossibili. Cuore
e pallone oltre l’ostacolo, discese ardite e gloriose risalite.
Grazie alla pedagogia di Carlo Azeglio Ciampi e alla
magistrale lezione di Roberto Benigni, ora anche l’inno di Mameli, per noi
italiani, non è più il grande sconosciuto. Balbettiamo un po’ di meno e ci
commuoviamo un po’ di più quando proviamo a intonarlo insieme ai nostri undici
eroi che si tengono per mano.
Un calcio al pallone e alla malinconia. Il filo
azzurro è pronto per essere passato ad altre mani. La storia continua. Si alzi
il sipario, lo spettacolo può cominciare perché, in fondo, i Mondiali siamo
noi.