«La
storia è in ciascuno di noi. Io ne vivo una da ottantaquattro anni».
Si è presentato così, con l’animo di un giovane
grintoso, il regista, arguto e ironico osservatore di costume in televisione, Ugo Gregoretti, salito, mercoledì 9
aprile, per la lezione di cinema del Bif&st sul palco del Teatro Petruzzelli.
Una lezione che ha avuto il sapore del tuffo nella
storia del Paese attraverso una successione di aneddoti: dalla morte del
Pontefice, allora Pio XI, che «sembrava
il “Cristo” del Mantegna», al suo rapporto con la Tv, per finire alla sua
grande autoironia.
«Anche
nella mia biografia – spiega Gregoretti – ho fatto un antimonumento. Sono un uomo qualsiasi: sono solo nato, come
direbbe Goldoni “sotto l’influsso di una stella comica”».
È proprio dalla sua autobiografia che il regista
italiano partirà per il suo nuovo film per cui non sceglierà “nessun divo e non ci sarà nessun appello al
mercato. Sarà un film che dovrà costare pochissimo”.
Racconta, poi, senza timore di essere «entrato nel 1953 in RAI con una raccomandazione. Mi assegnarono l’Archivio e mi
ritrovai a leggere una missiva di Mons.
Montini (che sarebbe diventato Papa Paolo VI, ndr) che suggeriva all’azienda
di nominare un Santo patrono vista l’importanza, durante il boom economico,
della televisione».
Così, dopo aver sfogliato libri su libri di agiografie
la decisione cadde su Santa Chiara.
Il perché, semplice: «Lessi che la santa, nella nuda cella dove viveva – racconta tra i sorrisi Gregoretti –, vide proiettata l’agonia di S. Francesco
mentre accadeva. Così pensai che in
quel momento aveva inventato la presa diretta».
Ma aggiunge: «Sono
un credente sezionale. Alla sezione miracoli non credo».
Il regista non ha nascosto l’ostracismo subito nel
corso della sua carriera da parte del mondo del cinema: «Avevo realizzato “I nuovi
angeli” (proiettato in sala durante la mattinata, ndr) che, nonostante ebbe
critiche negative da Moravia, ebbe un discreto successo. Sembrava assurdo, per
loro, che un rospo vissuto tra gli angoli della televisione, potesse riuscire
nel cinema».
Un film, quello citato, di grande attualità con uno
stile insolito per i tempi che finì nel dimenticatoio: ”È stato Felice Laudadio per caso a recuperarlo”.
Negli anni ’60, poi, ci fu il grande clamore per “Ro.Go.Pa.G.: il film, diviso in quattro episodi,
il cui titolo è una sigla che identifica i registi dei quattro segmenti Rossellini, Godard, Pasolini e lo
stesso Gregoretti, subì la condanna
per vilipendio della religione relativamente all’episodio “La Ricotta” di Pasolini. La decisione fu mitigata da un’amnistia e
la pellicola tornò sugli schermi con modifiche del sonoro e alcuni tagli: «Il magistrato ne cambiò il titolo – ricorda
Gregoretti – con “Laviamoci il cervello”,
ma oggi nessuno se lo ricorda così. “La Ricotta” fu un vero capolavoro, con me
nell’episodio “Il pollo ruspante” c’era un grandioso Tognazzi, gli altri furono
meno apprezzati. Io ebbi una lettera nella sigla e pensavano me la fossi presa,
ma era ed è bellissimo così».
L’artista a cui è rimasto più legato? «Sicuramente a Gigi Proietti (con cui ha condiviso l’esperienza grandiosa de “Il Circolo Pickwick”, ndr): siamo stati vicini per molto tempo, poi ci siamo allontanati e
ritrovati. È una persona a cui tengo tanto».
Un consiglio per i giovani in chiusura: «I pensieri, i ricordi, le idee si presentano
in maniera fulminea e con la stessa fulmineità scompaiono. Per cui portate un
taccuino con voi e quando arrivano, scrivetele … ».