È andato via così, volando. Proprio come quando sfrecciava
davanti a tutti i suoi avversari, su pista o asfalto che fosse.
Giovanni Franzin avrà sentito lo sgrillettio sinistro della “Dama dai denti verdi”, avrà
afferrato le corna del manubrio e, a testa bassa, si sarà messo a pedalare
all’impazzata, perché, quando suona la campanella dell’ultimo giro, un
velocista che si rispetti “pedala fino
alla morte”.
Mi diede il suo contatto telefonico il “pinguino multimediale”
Michele, di lui amico, lo chiamai che l’estate piano declinava.
L’assicuratore Franzin rispose distinto ed un poco
sospettoso, ma accettò l’invito. L’ennesima sfida.
Ci incontrammo un sabato in un caffè alla periferia
della città. La sera era frustata da un vento rabbioso che portava soffi di
ricordi. Giovanni aveva sotto braccio una cartellina così ordinata che pareva
chiusa da troppo tempo. Bisognava aprirla, mi dissi.
Parlammo per ore, forse la vita gli sembrò solo una fumata
di sigaretta: il fuoco della passione, la brace del tramonto, la cenere della
fine.
Giovanni staccò dal chiodo la sua bicicletta e partì saettando
sull’anello del cuore…
Dal papà che lavorava sul cantiere della Bari nord alla
mamma che gli dava la galletta da recapitargli di corsa, dal temibile Velo club Bitonto del dottor Vacca ai
successi sfolgoranti. Ovunque, in sella tra gli Anni Sessanta e Settanta.
Forse, lui non lo sapeva, ma Franzin era stato quello che era un
poeta per Giuseppe Ungaretti: “un grumo di sogni, un grido unanime”.
Le notti insonni a pensare alle gare vertiginose e
tormentanti, la folla – grandi e piccini ricchi e poveri, tutti rinascevano
nell’onirico entusiasmo di una corsa vinta – che s’assiepava inneggiante dinanzi
all’uscio di casa sua. Avete presente Castellania quando tornava Fostò Coppi vittorioso da un Tour?
Ecco, più o meno era così, dopo ogni fulgente vittoria. Più di centrotrenta.
Una cifra stratosferica.
Mille avventure, altrettante soddisfazioni.
A Salerno gli capitò persino di battere tale Francesco
Moser, poi campione del mondo e di tutto. I ritagli di giornale e le foto ne
illustravano lo stile possente e fulminante. Un ciclista così non era facile
trovarlo in giro. A Roma, però, per tanti motivi, non arrivò la svolta.
Dunque, il solito bivio delle persone serie.
Quando lo sport non può diventare un lavoro – e quaggiù,
troppo spesso, succede questo per carenza di strutture e miopi vedute,
culturali e amministrative – l’uomo sceglie la strada che può aiutare a
costruire un futuro credibile. Così, Giovanni adagiò in un cantuccio della sua
anima i sogni di gloria e cambiò registro.
Sedeva di fronte a me, quella sera, un uomo di mezza età,
fiero di ciò che aveva realizzato, volutamente dimentico del passato sportivo,
orgoglioso soprattutto dell’amata moglie e dei suoi figli, che stavano correndo
bene nella vita.
Quando spense nel posacenere l’ultima sigaretta, guardò per
un attimo il cielo con un pizzico di nostalgia. Una piccola stella ruzzolò giù
d’improvviso.
Quella lacrima di luce mi aveva regalato una favola
bellissima da scrivere.
Una favola bellissima che aveva incantato i bimbi, tanti e
tanti anni fa.
Ieri, giorno di San Valentino, dedicato agli innamorati
della pedivella dalla notte in cui si mangiò il cuore di solitudine Marco
Pantani, Giovanni Franzin è volato via, tagliando il traguardo estremo.
La sua ruota ha fregato la “Dama dai denti verdi” all’ultimo
respiro.
Ora, pare che alcuni bambini, ieri sera, abbiano visto una
cosa stramba. Una cosa curiosa assai: una piccola scia luminosa salire
contromano verso l’Alto.
Forse, quella stella cadente è tornata in cielo. E una pista
di nuvole bianche l’attende…