È uscito da poco
l’ultimo volume di Marco vacca, figura storica di maestro ed educatore e di
uomo di cultura bitontino. “Quell’errare che è la scrittura” è il titolo del
libro. E sì, perché errare è camminare, vagare, magari inciampare. E sbaglia
solo chi si mette in cammino e si pone obiettivi, mettendosi in gioco, vivendo
una vita di partecipazione e impegno civico.
Si tratta di una raccolta di testi e poesie sui temi più disparati.
Lo stile è sempre
quello del gaio cantastorie: educativo, semplice, comprensibile a tutti.
Ecco uno scritto
del giornalista Marino Pagano, pubblicato nelle prime pagine del libro. Non una
vera e propria prefazione al testo, ma dei pensieri sull’esempio di vita e
impegno rappresentato da Marco Vacca.
Figuriamoci, una
prefazione. Che farsene? Io a Marco Vacca devo delle scuse. E voglio che qua
restino, nero su bianco. Devo a lui delle scuse perché quando citiamo e nominiamo
Marco Vacca parliamo di un simbolo. Marco, in un certo senso, trascende e
supera il carnale per farsi appunto simbolo e valore puro.
I simboli si rispettano, come i valori. Se poi durante il tuo percorso
t’imbatti in un galantuomo così, ne hai la fortuna indicibile e poi ti permetti
pure di nicchiare, farlo attendere, beh, meriti la più severa delle punizioni.
Eccomi qui ad infliggermela. Punizione del me, da me.
Il motivo, per farla breve? Questo libro (di cui non parlo, preferisco parlare
dell’uomo) che ora vede la luce e che avete tra le mani esce tardi. Marco s’era
affidato a me. Pensa che fiducia. Impegni magmatici, occupazioni dilaganti. Il
ritardo, così, da rivolo che era si fece marea d’attesa. Lui però, signore
sempre, mai ha inteso dare realmente fretta. Il tempo passava ed eccoci, poi,
qui, al libro bello e pronto. Ma le scuse, per i mesi volati, le devo tutte.
Non si tratta così la storia e me ne sento responsabile. “La” storia,
col determinativo. Non “una” storia, “un” pezzo di storia,
“un” simbolo (come pure scritto su). Marco Vacca, il maestro Vacca,
così straordinariamente e capillarmente presente nell’attualità cittadina e
nella memoria dei tanti ragazzi da lui forgiati e istruiti, è storia totale
della città. Sì, totale.
Storia dei suoi angoli nascosti (presso cui andava a recuperare i suoi
ragazzi), del suo vivere civile e sociale (lui, così magistralmente presente
nel mondo dell’associazionismo e della politica), delle sue fatiche cristiane
(Marco, attivo e maestro anche del laicato cattolico impegnato), delle sue
memorie e del culto delle sue bellezze artistiche (non si contano i volumi e
volumetti a sua firma dedicati alla storia di Bitonto). Come si vede:
“la” storia.
Tanti gli ambiti, completo il lavoro, vivo ed esemplare il messaggio. Scuola,
politica, fede e cultura. Quattro vite in una. Molti come lui? Molti, cioè, i
docenti di fede e cultura cristiana poi in politica e in più ricercatori? Vero,
verissimo. Ma, consentitecelo, in Marco Vacca non appare difficile scorgervi un
surplus educativo. Una mai realmente serena istanza votata al sollievo d’anime,
un’ansia morale perpetua (civicamente perpetua e civicamente morale), una
tensione mai doma (e affannata solo perchè gli anni si sentono e anche il
fisico dell’omone buono ogni tanto cede) al riscatto.
Provate, provate ad ascoltare Marco mentre ricorda i tentativi -sofferti,
persino tragici- di recupero sociale dei ragazzi più sfortunati del centro
storico negli anni passati, nei decenni che furono.
Sembra come se quell’umanità straordinaria che lo spingeva allora ad agire con
coerenza di maestro cristiano lo agiti e muova ancora oggi. Lo capisci dal
volto e dall’espressione, dalla mano che quasi, raggrumata a pugno, vorrebbe
schiantarsi con il tavolo dove l’ascolti. Ma non s’imbatte, non urta. A Marco
bastano gli occhi, basta quel detto e non detto, quella frase solo
apparentemente mozzata e troncata. Non finita con le lettere ma percepita
dall’interlocutore col cuore (dal cuore, quello di Marco, in quel che resta del
nostro).
Parole che poi dicono tutto, eloquenti per davvero. Parole del rammarico, dal
rammarico. Quei suoi “ecco, vedi, mannagghie…”, per chi lo conosce,
sono tutto. Perchè dicono, talvolta, la sua sensazione di aver potuto tutto
quel che poteva, come uomo e come docente (la stessa cosa, tra l’altro), unita
però alla consapevolezza che il passato, il presente e il futuro della
riemersione di un’umanità negletta e celata non potevano e non possono
dipendere da una sola persona (o da tante sole persone, perchè quel che faceva
lui lo facevano anche altri educatori della Bitonto più nobile e ispirata
-anche se il centro storico era ed è indubbiamente un unicum e un concentrato
di difficoltà-).
Lo sforzo è corale, la tensione collettiva e sempre più civica la sana rabbia,
ergo di tutti. Tuttavia, senza “maestro” sarebbe difficile. E Marco
Vacca lo è nel senso più proverbiale e iconico del termine. Simbolo
etico-educativo che ti mette in apparente soggezione, però, solo appena chiudi
la porta di casa sua e rimani solo. Pensi cioè al privilegio indubitabile ed
immeritato di essergli in qualche modo amico. Lo pensi solo allora perchè,
prima, lui e la sua simpatica e cortesissima consorte Anna, per tanti anni
educatrice anche lei, ti fanno sentire uno di casa. Quando invece ci si
dovrebbe togliere il cappello di fronte a questo grande pezzo di ‘900 culturale
e, ripetiamo, etico (sì, Marco è pienamente uomo anche del 2000, ma noi
vogliamo legarlo al secolo scorso, quello in cui si è formato e ha
formato).
Ma accade un paradosso. Le cose che capitano ai maestri vivi dentro.
Infatti è un po’ come se la storia (di cui Marco è incarnazione) stia
invecchiando ormai noi e tutti gli altri suoi allievi, lettori, ammiratori e si
sia poi divertita nel lasciare eternamente giovane questo gigante della parola,
il cui messaggio non subisce affanno visibile (il dato fisico è mero dettaglio)
ma resta diuturno e vivo, pronto a destare l’anima sopita nostra. Perchè lui
offre vita concreta alle parole.
Teoria e prassi, si diceva una volta. Marco dimostra quanto la parola sia già
tutto, se vera e sentita. Coltivata dentro sè. E questo è -etimologicamente,
persino- anche la cultura. Non appiana i sogni, la cultura: li libra,
liberandoli.
La parola in Marco è storia e fatto a livello intrinseco, perchè supera la
lettera. La parola è già valore, la lettera può non esserlo. Marco uomo della
parola che non rilassa, in una dimensione, se si vuole, propriamente religiosa
e collettiva.
Non resta che dirgli grazie. Come figli di una comunità, come cittadini che
quotidianamente provano a non soccombere, come bitontini fieramente
appassionati a tessere la trama di un’identità che se è collettiva riguarda
tutti per davvero, nessuno escluso. Come lui ha sempre insegnato. Grazie! Per
quello che ha fatto ieri. Per il suo ieri storico ed etico. Per il suo esserci
stato lì dove tanti non arrivavano.
Per aver capito (e fatto capire) che la vita o è esempio o non è. Marco uomo
della parola vera. Marco uomo vero. Noi proviamoci.