Fate conto che questa
sia una pagina di diario lasciata su un
tavolino d’un caffè in centro, tra le auto che sfrecciano coprendo le
chiacchiere dei clienti che sembrano parlare in playback.
«Dove siamo? Cosa
facciamo? Sono confusa. Troppi risolini superficiali coprono l’essenziale.
Voglio silenzio. Devo sentire solo il rumore della noia. E del telefono quando
si chiude una chiamata. Lo stesso dell’ elettrocardiogramma quando è piatto. Il
nulla. Per ripartire. Per svuotare, per scavare. Per capire. Per riempire
daccapo.
Basta con le feste in
cui ci si diverte per finta e ci si sente alienati fra migliaia di persone. Basta
coi sorrisi educati ma che celano solo tanto imbarazzo. Basta all’alcool che fa
finta di risollevarci, basta alla compagnia forzata. Basta alle foto con la
felicità immortalata e il vuoto dentro, ché anche se resta il ricordo è un
passato distorto. Basta alla mancanza. Ciò che manca è sofferenza.
Voglio la solitudine. Il
buio. La calma. Ci si adatta troppo alle situazioni che ci circondano. Troppi
riempitivi nelle nostre vite. Troppi diversivi. Giri in bici, giri in macchina,
giri intorno al mondo. Mi sembra di stare su una giostra meravigliosa coi
cavallini e le luci e la musichetta da carillon, ma la velocità è troppa, mi
viene la nausea, e non posso scendere, ma perché devi scendere ci sono i
cavallini e la musica e le luci? E tutto gira, e ci si deve solo abituare alla
velocità.
Basta voglio fermarmi. Voglio
sentire solo una nota stonata, l’ultima nota scordata del pianoforte, il rumore
dei cocci che si infrangono, il peso delle catene che trasciniamo. Voglio
guardare la mia condizione di prigioniero. Voglio fronteggiarla. Guardarmi allo
specchio pallido, con i segni alle braccia, le occhiaie, la stanchezza, il
fallimento.
Voglio restare fermo nel
traffico di una grande città mentre tutto intorno scorre velocissimo come nei
fotogrammi di un film. Voglio sentirmi solo con me stesso. E guardarmi da
lontano. Anziché stordirmi o andare in posti lontani e meravigliosi. Ché tanto puoi andare dovunque ma non si scappa
da se stessi. E non piangere. Fare i grandi per una volta. Farsi attraversare
dal dolore, dalla negatività. Lasciarsi attraversare, guardarla, salutarla con
una cenno: “Ci rivediamo, precarietà, stronza dura a morire”. Precarietà nelle
azioni, in famiglia, nel lavoro, nello studio.
Che ne sarà di noi? Dove
siamo? Cosa facciamo? Sono confusa».
Fate finta che sia un
foglio di diario trovato sul tavolino di un bistrot. La ragazza lascia il
foglio e va via; qualcun altro lo leggerà e raccoglierà la sua testimonianza.
Una pagina bianca,
ammissione di colpa, training autogeno, respiro.
A volte l’unica
soluzione è lasciare che le emozioni prendano corpo nelle parole. Solo “la
solitudine interiore è una solitudine creativa”. A volte la migliore terapia è esprimere
il proprio rammarico con un vomito arzigogolato di parole. Sarà sterile, improduttivo,
lamentevole, ma aiuta.
Provate.
Un
forte ringraziamento ad Ilaria Pastoressa per l’importante contributo.