Non c’è più spazio
per la solitudine. O meglio c’è ma non si vede.
Risulta tanto
meglio rintanarsi dietro ad un pannello di vetro multimediale che ha le
funzioni di schermare le insicurezze, di amplificare i propri pregi, di rendere
travisabile ogni parola, di perfezionare quasi ogni difetto.
Si consideri facebook:
si cerca di mostrare il proprio lato migliore tramite immagini, stati, tracce
musicali. La persona è un brand da pubblicizzare. Si è schiavi di un’industria
virtuale che sforna individui diversi fra loro ma fondamentalmente stereotipati
nel modo di agire e di attirare l’attenzione.
Aggiornare facebook
diventa senza esagerare un lavoro a tempo pieno: ci si impegna per trovare
stati abbastanza colti da sembrare nostri, si modificano immagini tanto da
sembrare gli snapshot fatti nel posto giusto al momento giusto, si pubblica la
canzone che può accontentare più o meno tutti, da “Sunday morning” la domenica
mattina dopo il sabato da leoni a “Don’t stop me now” dei Queen nei giorni di
maggiore autostima e per finire con l’intramontabile “Iris” dei Goo Goo Dolls per far sciogliere
anche gli animi più duri.
Il mondo virtuale
ci piace così tanto perché permette uno sdoppiamento: chi si è e chi si crede
di essere. Il che da un lato realizza un aumento di autostima pazzesco di
fronte all’immagine (falsata) che si riflette all’esterno, dall’altra crea un’
inquietante dipendenza dalla divinità Approvazione.
Come nei
videogiochi è permessa la costruzione di una seconda persona, più simile a chi
si vorrebbe essere o a chi si vorrebbe far arrivare agli altri. Ecco: la
proiezione di un alter ego. Forse effettuando una valutazione solo esplorando le bacheche di fb ci si potrebbe
considerare tanti adoni eruditi con una vita piena e felice. La noia è bandita.
La solitudine anche. Una semplice foto
della colazione può diventare un’esperienza emozionale da condividere coi
propri amici: già il solo monitoraggio
dei likes può regalare sensazioni tali da cambiare il corso di una giornata. Si
ottiene la realizzazione di sé senza sforzi e con un certo senso di appagamento.
Si tratta in realtà di egotismo associato ad una insicurezza cronica, in quanto
totalmente subordinato al riconoscimento
altrui.
Il
prototipo di procacciatore di millanta mi piace è il soggetto incline al
narcisismo velato. E’ quello che pubblica foto fighissime accompagnate poi
dalle parole di grandi filosofi o letterati. E così ci si trova davanti ad una
bellissima ragazza con un bel panorama alle spalle (ahimè le donne sono più
inclini a tale pratica), magari in atteggiamento sornione e con un leggero
broncio a metà fra l’essere pensierosi ed un inizio di colite. Si comincia a
leggere immaginando un sottofondo musicale romantico. Poi ecco velocemente
l’effetto pitch shift (stoppamento del disco) appena ci si rende conto della didascalia:
“Stasera il cielo
oltrepassa ogni limite di luce, le stelle accendono la loro sintonia, e tu
rifletti in ognuna di essa”. Olè.
E’ come se il soggetto si rendesse conto
della frivolezza e della vanità trasmessa dalla foto da doverle compensare con uno slancio di
profondità fasulla. Tutto ancora
meglio se la foto è in bianco e nero, tanto per dare l’idea di uno scatto
anacronistico.
Il reale problema è che riusciamo a
figurare nella nostra mente una realtà che non ci appartiene davvero, e si
tenta di instillare negli altri qualcosa di fondamentalmente distorto.
La comunicazione di facebook non passa solo
attraverso il linguaggio tacito delle immagini. Spesso si raccontano aneddoti,
frasi ad effetto, profezie, considerazioni lapidarie, tutte degne
considerazioni della fusione tra un
crepuscolare e Flavia Vento. I poètes maudits dei tempi nostri.
Si moltiplicano in quantità sorprendente
poi gli individui che di persona difficilmente riescono a reggere lo sguardo
per più di 5 secondi e proferire parola, ma che con il sostegno lessicale ed
ortografico di internet si digievolvono nei Jim Carrey italiani: brillanti,
comici, esilaranti. Se poi alle battute si allega anche la foto di un cucciolo
o di un bambino si è davvero dei geni della speculazione. Di fronte a cotanta
tenerezza anche Alex De Large avrebbe un attimo di cedimento.
Ci si dimentica che il mondo virtuale
offre ciò che un contatto reale nega: il tempo di reazione. Dietro uno schermo è
possibile elaborare risposte e discorsi senza fretta e ricercando il modo
migliore per esprimere concetti anche complicati. Mi chiedo se ci affidiamo
alle immagini o alle parole di altri perché in realtà non abbiamo nulla da dire
a causa della nostra aridità. Saramago direbbe: “Non so se siano le immagini o le
ombre che ci occultano la realtà”.
In tutto questo panorama, forse, quelli
che mi risultano più simpatici o meno irritanti
sono quelli che mettono mi piace ai propri
link: almeno loro tengono alla considerazione di se stessi.
Il resto è solo “quieta disperazione” come
diceva Thoreau.