Verso la fine dell’800,
dal lato dell’antica Porta Robustina o di Ruvo a breve distanza dell’abitato,
verso il campo di San Leone, si osservava una lunga striscia di grandi massi di
tufo, a pochi metri sepolti sotto la superficie del suolo, ora interamente
distrutti; essi, in gran parte, servirono a costruire il muro di cinta della
villa Umberto I.
La continuità di quei
massi, la loro regolare situazione, la loro forma, la distanza quasi sempre
uguale dai luoghi abitati, ed il correre verso il Campo di S. Leone attestavano
che essi non furono messi a caso: indicavano un determinato uso.
La fondazione di una città
seguiva uno scrupoloso e meticoloso insieme di riti. Innanzitutto veniva
identificato quello che sarebbe diventato il centro della città, che prendeva
il nome di mondus e solo dopo veniva
tracciato un solco di confine che delimitava il territorio della città.
Successivamente venivano interrati nel mondussimboli religiosi che avrebbero dovuto assicurare alla futura città benessere,
prosperità, pace e giustizia. Poiché non era possibile costruire subito le mura
di difesa sul primo tracciato, veniva realizzato un secondo solco, parallelo al
primo. La striscia di terra compresa fra il primo e il secondo solco era il pomerium vero e proprio. In questo
territorio i sacerdoti confinavano gli spettri, i fantasmi, le larve, i demoni
delle malattie e gli spiriti della guerra, della fame, delle pestilenze e tutto
ciò che poteva essere ricondotto a situazioni negative per la città e per i
suoi abitanti. Qui non si poteva costruire, non si poteva abitare, non si
poteva coltivare. Il recinto sacre delimitava e definiva l’urbs, che è la città
intesa come entità sacra agli dei.
In un documento conservato
nella curia vescovile di Bitonto, ripreso dal Prof. Nicola Brandi nella sua pubblicazione
“Per l’antichissima Bitonto”
leggiamo: Vero operae praetium est
scire Butuntum fuisse idolatriae deditam, et adoravisse Minervam, utisuam
peculiarem divam… et habuisse, sicut habet campum Butuntum circularem
existentem prope viam, quae ducit ad mare, qui inserviebat iuventuti
Butuntinae, dum ludos Oljmpicos celebrabat ad choreas, luctationes et saltationes
in summi Jovis honorem. (In verità, il pregio dell’opera è sapere che
Bitonto sia stata dedita all’idolatria e che adorasse Minerva, come dea principale…
e abbia avuto, come tutt’ora Bitonto ha, un campo di forma circolare situato presso la via che
conduce al mare, che serviva alla gioiosa gioventù bitontina, quando celebrava
i giochi olimpici nella corsa, lotta e
salto, in onore del sommo Giove).
Sotto
l’egida di Atena
(Minerva dei romani) si svolgevano in suo onore sin dal 566 a.C. le gare
Panatenee ad Atene nel mese di Ecatombeone (luglio-agosto). Le ergastine,
fanciulle ateniesi, coronate dall’ulivo, tessevano il magnifico peplo
(mantello), trasportato su nave con ruote, alla statua di Atena di legno d?ulivo, posta sull’Acropoli,
ad oriente dell’Eretteo. La processione è rappresentata sui fregi del
Partenone. Si presume, quindi, che anche a Bitonto, città che aveva in Minerva
la sua dea protettrice, effigiata anche su monete con la scritta Byton Tynon e
la figura di Atena, si siano svolte le gare in onore della dea.
I
vincitori venivano premiati con denaro, medaglie d’oro e d’argento ed anche
olio d’oliva in vasi riccamente ornati.
Se
Bitonto fu città greca e poi romana, e si celebravano, come abbiamo visto, tali
giochi, si deve convenire che abbia avuto il suo pomerio e i luoghi dove
venivano eseguiti i sacrifici e i giochi. E la popolazione di Bitonto, dispersa
nel suo vastissimo territorio, nei suoi non pochi casali, si raccoglieva nel
suo pomerio, messo nel vasto campo di San Leone, per celebrare i giochi e i
sacrifici. Ivi pure si raccoglieva la balda gioventù bitontina per esercitarsi
alla corsa e al pugilato, ivi i gladiatori affrontavano giubilanti la morte;
onde il Gravina ebbe a scrivere dei Bitontini essere agili balestrieri e abilissimi nell’arte delle armi.
Il pomerio non era
rappresentato da mura, ma si trattava di un confine legale e religioso, marcato
da pietre bianche (come nella città di Roma), o tufi a Bitonto, chiamati cippi.
Nella leggenda di Romolo e Remo della fondazione di Roma, Remo viene ucciso da
Romolo perché oltrepassa il solco che questi stava tracciando. Remo oltrepassa
il solco armato. Quasi certamente il solco che Romolo stava tracciando era il
secondo e Remo deve aver oltrepassato il primo, macchiandosi quindi di una
colpa gravissima, che era la profanazione della città.
Il recinto sacro
delimitava e definiva l’Urbs, che è
la città intesa come entità consacrata agli dei. Solo le città con un pomerium potevano essere definite urbs. Le altre sono, al massino, oppida, nel senso di entità racchiuse da
muri con scopi esclusivamente civili, amministrativi e difensivi.
L’aver ritrovato i tufi
posti a regolare distanza nella zona antistante Porta Robustina, tufi disposti
verso il Campo di San Leone, e non altrove, ha una sua logica, in quanto il
primo nucleo della città di Bitonto, quello limitato dalle mura, per i 2/3 è circondato
dal vallone del Tiflis, il rimanente è pianeggiante. Tale zona, che coincide
con il pomerium, fino alla fine del 1700 era praticamente priva
di costruzioni anzi, sin dall’antichità era una zona cimiteriale, ed ivi,
infatti, sono state scoperte decine e decine di tombe nel corso degli ultimi
secoli, fino a due anni fa.
La
particolare disposizione del terreno, glabra e pianeggiante, impediva agli
eventuali assalitori, in caso di conflitto, di nascondersi dietro possibili
ripari e permetteva ai soldati bitontini disposti sulle mura della città di
avere una ottima visione per colpire i nemici.
Il
Campo di San Leone, così chiamato dal nome della Fiera che si teneva
annualmente nei primi giorni di aprile, famosa nel Medioevo, di cui parla anche
il Boccaccio nel suo Decamerone, è rimasto per lungo tempo un’area demaniale, non
coltivata, su cui, successivamente è sorta la Villa Comunale.
Sempre
nel Campo di San Leone, nell’ottocento, venivano giustiziati i condannati a
morte: famosa la decapitazione del brigante Baggiàcche,
il cui corpo fu sepolto nella chiesa suburbana di S. Vito, posta in Via F.
Cavallotti, e la cui testa fu consegnata a Terlizzi, sua città natale, per
essere esposta nella piazza principale, a monito dei cittadini. Ma di questo
parleremo in altra occasione.