DI LUDOVICO DI TERLIZZI
L’ho conosciuto fuori dall’IPM, io. Ancora lavoravo dietro al bancone di quello squallido bar e quando lo vidi entrare trionfante avevo realizzato con chi stavo per aver a che fare.
Mi distrassi, lo ammetto, ma dovevo servire quel vecchiaccio che mi fissava con
aria imperiosa. Quando esaudii i suoi desideri -un espresso stretto ed un cornetto
alla crema- aveva già finito i suoi porci comodi. Lo rincorsi attirando la sua attenzione chiamandolo a gran voce.
Ho sempre provato un profondo disprezzo per quelle persone -grandi e piccine- che sembrano cresciuti a pane e Gomorra. Educato, gentile, dai modi garbati e pure ben vestito -il gentiluomo che gli stava accanto. Un moccioso che arrivava appena al bancone, biondo, doppio taglio sfumato e disegnato, mi fissava con quel ghigno malevolo attraverso due occhioni di ghiaccio.
Scortato dalla sua compagnia, aveva ben pensato di servirsi dell’acqua – minerale, nientemeno – senza domandare a nessuno il permesso e, tanto per mettere le cose in chiaro, nel bicchiere di vetro.
Gli rivolsi la parola con la calma e la gentilezza di chi si lascia scivolare
certe cose, dicendogli che forse non lo sapeva, ma poteva quantomeno domandare uno straccio di consenso prima di servirsi in autonomia, specie se quelle manacce
dovevano arrivare al di là del bancone. Stavolta era lui a guardarmi torvo: il
garzone del bar – uno stronzo qualunque – aveva messo in discussione la sua autorità ed il suo ego stava visibilmente accusando il colpo.
Mi rispose che se avesse voluto, lui e la sua ciurma di scalmanati avrebbero messo a soqquadro il bar per la mia bravata; e che facevo un caffè di merda. Tutto in endecasillabi, naturalmente. Lo ammetto: davanti a tutti quei gorilla puzzulenti e tautati avevo la tremarella.
Ogni volta che lo rivedo, in altri luoghi, in altri occhi, un senso di disprezzo particolarmente acuto mi fa ribollire il sangue e devo stare attento che la mia espressione non lo dia a vedere. Di lui ne ho visti troppi sin da quando ero bambino, dall’asilo all’Università come fuori al portone di casa mia – una corte che ben si presta ai ritrovi serali dei teppisti, e nelle sale d’attesa della stazione ed ogni volta, fra me e me pensavo: perché a me? Ma poi ho cambiato atteggiamento. Cosa ci guadagneremmo se li ammanettassimo tutti? E cos’altro, invece, se continuassimo ad allontanarli dalla società civile, a ricambiare i loro sguardi incattiviti o peggio; volgendo il capo il basso, ignorando la loro presenza? (Non è proprio questo atteggiamento il movente dei loro comportamenti esagerati?).
Li ho rivisti di recente, quegli occhi nei suoi occhi. Per fortuna non lavoro più
in quel bar da due soldi e per sfortuna l’attuale ambiente di lavoro è anche peggio. Stesso taglio disegnato, stesso abbigliamento da teppista, fa il suo
ingresso in stazione di servizio con quella musica che di musicale non ha niente. Era al volante di una centoquarantasette tutta scassata. Abbiamo saltato le presentazioni e, prima che potesse aprir bocca, mi sono fatto coraggio – tanto – ed ho provato a parlargli come i fratelli grandi fanno coi piccoli. Gli ho detto che a quell’ ora del mattino avrei preferito saperlo a scuola
e non al sedile passeggero di un veicolo che in nessuna occasione, prima della
maggiore età, avrebbe potuto guidare. Mi disse che della scuola non voleva più
sentir parlare e che stava giusto andando ad iscriversi al centro per l’ impiego con sua nonna. La signora, che non dimostrava più di quarantacinque anni, sedeva al sedile passeggero, sorridente.
L’ho riguardato con benevolenza augurandoli buona fortuna; e che se non voleva finire come il benzinaio – in mezzo ai quattro venti e come le mani corrose dal carburante pure coi guanti – doveva proprio riconsiderare la sua posizione. Mi congedò con un cenno del capo, volgendo lo sguardo di fronte a sé. Se quel ragazzo tornerà a scuola io non lo saprò mai, ma una cosa è certa: ho fatto breccia nel suo cuore.
Probabilmente quelle parole, le mie, da sole, non saranno sufficienti a fargli cambiare idea; ma accadrebbe, se non fossero le uniche?
Cosa accadrebbe se tutti facessimo come il Comandante con Micciariella e provassimo a guardare oltre quella maschera rancorosa ed osservassimo le cose per quelle che sono? Non tutte le persone hanno avuto l’opportunità di vivere in contesti sani e di sviluppare le proprie abilità come molti altri di noi.
Dunque cosa ci aspettiamo, che questi ragazzi, un giorno presto o tardi, aprano gli occhi da sé? E come ci comportiamo, se durante l’attesa si fa troppo tardi e ne perdiamo qualcuno? Allora, prendiamo esempio dal Comandante: guardiamoli bene in faccia, ignoriamo la maschera che vogliono farci vedere, tocchiamo il loro cuore e concediamo loro l’opportunità di riscattarsi.