Cosenza. 12 marzo 1985. Ore 14.17. Una 500 gialla targata BA278678, fu affiancata da una Mitsubishi. Partirono proiettili che colpirono l’uomo alla guida della Fiat. La sua auto finì la corsa contro un palo dell’illuminazione stradale. Uno dei killer scese dall’auto e sparò altri colpi prima di fuggire insieme al complice. Quell’uomo morì il giorno dopo. Si chiamava Sergio Cosmai, 36 anni, di Bisceglie, direttore del carcere di Cosenza. Era diretto all’asilo di sua figlia, per riaccompagnarla a casa. Mancava poco al ritorno in Puglia, con il trasferimento a Taranto. Ma nella sua regione tornò senza vita. A sparare furono i fratelli Nicola e Dario Notargiacomo, insieme a Stefano Bartolomeo, con la supervisione di Giuseppe Bartolomeo. A ordinarlo, il boss Franco Perna.
La sua colpa fu non piegarsi alla prepotenza della ‘ndrangheta, che dettava legge anche nel carcere, con l’indifferenza o la complicità di chi, invece, avrebbe dovuto essere dalla parte dello Stato.
Piccola postilla. Tra chi indagò per individuare i killer, ci fu un giovane dirigente della squadra mobile di nome Nicola Calipari, di cui, nei giorni scorsi, è stato celebrato il ventesimo anniversario dalla sua uccisione in Iraq, per mano dell’esercito statunitense, nei concitati momenti che seguirono la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena.
Torniamo a Cosmai, dal cui omicidio sono passati quaranta anni.
«Non chiamatelo eroe» ammonisce Tiziana Palazzo, sua moglie: «La retorica degli eroi è solo un alibi. Era una persona normale che non si piegava ai ricatti. Faceva il suo dovere con convinzione e dedizione».
Per quel sacrificio, alla famiglia fu conferita la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Ma chi era Sergio Cosmai?
«Un ragazzo curioso, ansioso di conoscenza, molto sportivo e sempre attento alle esigenze degli ultimi».
Dopo il liceo classico e la laurea in giurisprudenza, sostenne vari concorsi, superando quello per l’amministrazione penitenziaria.
Prima di Cosenza, Cosmai fu vicedirettore delle carceri di Trani, Lecce e Palermo e direttore di quelle di Locri e Crotone. Dal punto di vista criminale, a contendersi la città erano i clan Perna-Pranno e Pino-Sena, nati da una guerra intestina alla ‘ndrina del defunto boss Luigi Palermo.
«Sergio era convinto che il carcere dovesse essere un luogo di reinserimento nella società di chi aveva commesso un errore. Cercava di assegnare un lavoro a chi aveva più bisogno, ai più poveri, che non avevano sostegni esterni dai clan. Sottraendo a questi manovalanza» ricorda la professoressa Palazzo, sottolineando il rispetto che aveva per guardie e detenuti: «Dopo l’omicidio ho appreso molte cose che raccontano l’umanità di Sergio. Ricordo la lettera di un detenuto, che ne parlava come di un amico».
Cosmai aveva scoperto la passione di quel detenuto per la poesia. E lo incoraggiava a scrivere, ad esternare in quei versi l’angoscia che lo tormentava, convinto che la nobile arte della scrittura fosse in grado di avviare l’uomo verso la redenzione.
Ma era anche un uomo integerrimo, deciso a non sottostare alla legge dei boss, a cui altri si erano piegati: «Notò come, con le visite dei parenti, arrivasse droga. Impedì che i boss ordinassero ostriche e champagne, simboli di un potere che lo Stato non poteva riconoscere a dei criminali. Contestava la semilibertà a personaggi che non ne avevano diritto».
Per la ‘ndrangheta, tutto ciò era inaccettabile.
«Ma a uccidere Sergio fu anche chi, nelle istituzioni, lo lasciò solo» aggiunge, ricordando l’assoluzione degli assassini, pare, dietro pagamento di 70 milioni di lire, non si sa verso chi, durante l’appello celebrato a Bari, per l’aggiustamento del processo. Già assolti, i Notargiacomo, poi divenuti collaboratori di giustizia, non furono più condannati, nonostante l’ammissione. Nessuna condanna anche per i fratelli Bartolomeo, che nel 1991 furono assassinati sempre per ordine del clan Perna – Pranno.
Per la condanna all’ergastolo del mandante Franco Perna ci vollero 27 anni: «Avere giustizia dopo così tanto è un’indecenza. Assolvere gli esecutori è un’indecenza. Non c’è soddisfazione, ma solo sollievo perché quello di Sergio non è più un nome in fascicoli impolverati».
Cosmai lasciò, oltre alla moglie, la piccola Rossella, di tre anni, legatissima al padre. Dopo un mese nacque il secondogenito Sergio a cui fu negato per sempre il diritto di conoscere chi gli aveva dato la vita.
Non è un caso che si chiami Sergio: «Mi sembrò un modo per far rinascere mio marito. Ma, se potessi tornare indietro, non lo rifarei. È un peso che mio figlio non meritava. La rinascita vera è continuare a preservare la memoria. Operazione dolorosa, ma dovere morale da assolvere affinché da una tragedia nasca un insegnamento da lasciare al prossimo».