DI LUCANTONIO SIMONE
Il lessico fascista, ormai, quando si parla di violenza giovanile, pervade la comunicazione di massa. Spesso i notiziari, i politici, le forze dell’ordine si appellano a “disciplina” e “coercizione” le quali, spesso, vanno in coppia. Disciplina e coercizione fanno parte di un lessico militare che, figlio del fascismo, è rimasto persino nelle nostre scuole.
Il sistema educativo attuale, tutt’ora ancorato a modelli autoritari, mostra evidenti limiti nella prevenzione della violenza giovanile. Ma siamo davvero sicuri siano questi i mezzi adatti alla formazione e alla riabilitazione di chi vive o deve essere reintegrato nella società?
In questo contesto, il pensiero di Gramsci offre una prospettiva alternativa: la disciplina non come imposizione dall’alto, ma come percorso di crescita consapevole.
Antonio Gramsci (1891-1937), filosofo, politico e intellettuale tra i più influenti del XX secolo, nonché tra i fondatori del PCI, potrebbe suggerire una via da percorrere per rispondere al nostro quesito.
La disciplina, sostiene Gramsci, deve essere intesa come il mezzo attraverso cui si impara a “elaborare la propria concezione del mondo in modo consapevole e critico”.
Ripensare il concetto di disciplina, non come obbedienza acritica ma come strumento di crescita personale, potrebbe aiutare a individuare le falle nel sistema.
La violenza giovanile deve, indipendentemente dalle sfumature che la caratterizzano (razziali, di genere, mafiose ecc.), essere ripensata in un ottica diversa. Evidentemente gli episodi di violenza crescono soprattutto per una mancata educazione affettiva.
La mancata educazione affettiva si manifesta in molteplici aspetti: l’incapacità di gestire la frustrazione, la difficoltà nel riconoscere e esprimere le proprie emozioni, l’assenza di empatia verso l’altro. Questi deficit emotivi spesso sfociano in comportamenti violenti.
La disciplina, in questo contesto, fungerebbe da mezzo per sviluppare responsabilità civica e autocontrollo, con i quali potrebbero ridursi quei comportamenti antisociali di cui ogni giorno sentiamo parlare.
In tal modo, impartire un’educazione che miri alla disciplina, può tradursi in pratiche educative concrete: laboratori di gestione delle emozioni, spazi di discussione e confronto dove i giovani possano elaborare criticamente le proprie esperienze, progetti di responsabilizzazione collettiva.
Ad esempio, nelle scuole dove sono stati implementati programmi di peer education e mediazione tra pari, si è registrata una significativa riduzione degli episodi violenti. Questo perché i giovani, guidati a sviluppare autocontrollo e responsabilità sociale, diventano protagonisti attivi del proprio percorso di crescita, non meri destinatari di regole imposte.