L’arte è la chiave più ardita, fascinosa e sublime per interpretare il mondo.
E se lo stile è proustianamente qualità della visione, ognuno la vede come vuole. Se, poi, uno ci mette palpiti e idee, allora può capitare di trovarsi dinanzi ad opere meravigliose secondo etimo, che stupiscono e son mirabili. All’improvviso, ti spalancano universi ancestrali e dimenticati, strabilianti ed eccezionali, mistici e mirabili.
Prendiamo le tele di Nick Giu – nome di piuma del barese Nicola Giuliani – e del bitontino Giuseppe Genchi. (Parentesi lunga: li accomuniamo perché sono sì tanto amici e perché a scoprirli è stato quel genio vulcanico che risponde al nome di Michele Agostinelli, maestro di sogni e stravaganze, consorte di Concetta Antonelli, angelicata poetessa).
Ogni creazione del primo è un’avventura tumultuosa e trepidante: un manifesto strappato con la complicità di un tassista una sera a Roma, dopo la pioggia; rockstar immortalate nel loro gesto iconico, ma immerse in un turbinio di colori, che non sono solo strumenti cromatici, ma essi stessi protagonisti con pennellate ora lievi, ora dense, tanto da interagire con quel che li circonda; oppure cantanti celebri circonfusi da coriandoli aurei che sono pure frammenti di pareti.
Ed è tutto qui il mistero della bellezza: cova nascosto dentro il cuore di un autore ed esplode a sorpresa in una creazione, spesso oltrepassando le intenzioni stesse di chi la partorì.
Pino Genchi, invece, si cala nel pennello come fosse una macchina del tempo e trasvola i cieli dei millenni per arrivare ai graffiti, essenziali e lirici, e alle pitture rupestri, immote in un’aura di eternità, di-segni che raccontano storie di vita lontanissima e millenaria, e pur vicinissima tanto da essere interiore, e i disegni che ci restituiscono avvincenti battute di caccia, simboli fondanti di una civiltà, divinità che si facevano oracoli anche solo col pensiero e lo sguardo.
È l’artista un acrobata sul filo della follia, che danza in bilico impugnando con abilità ed emozione la pertica dei secoli?
La risposta potrebbe essere facilmente affermativa, ma mantiene dentro di sé “quel nulla di inesauribile segreto” ungarettiano che è l’essenza dell’uomo stesso, non solo del pittore.
E, forse, siamo noi che strabuzziamo gli occhi dinanzi a questi piccoli grandi capolavori che abbiamo perso la salvifica abitudine d’auscultare i battiti più segreti che, certe sere, dopo il crepuscolo, scuotono ancora il nostro petto…