di Angelo Palmieri
C’è un rifugio a Bitonto dove l’umanità respira piano, come un sussurro nella notte. È l’Hospice Aurelio Marena, un faro che rischiara il confine tra luce e ombra, dove il dolore non è mai schiacciato dalla solitudine, ma cullato, accolto, addolcito. Qui, l’attenzione si trasforma in una carezza, e l’addio in un abbraccio che si prolunga oltre il tempo.
Affiora un ricordo lontano: Le invasioni barbariche, il capolavoro del regista canadese Denys Arcand. Il film ci ha rivelato come anche l’ultimo tratto di strada possa essere colmo di premura e rispetto. La storia del protagonista, Rémy, un professore universitario malato terminale, che si riconcilia con il figlio e i vecchi amici durante i suoi ultimi giorni, riecheggia tra queste mura. Le immagini di quell’opera sembrano rivivere qui: una mano che si tende verso un’altra, uno sguardo che accoglie senza giudizio, un gesto d’amore che rende la fine un momento di condivisione e compassione profonda.
Ma l’hospice non è solo un luogo di accudimento fisico; è un laboratorio di solidarietà, un ponte tra la medicina e il racconto. Qui l’arte narrativa applicata all’assistenza trova la sua più alta espressione: ogni paziente è una storia unica, una biografia da ascoltare. Le parole, i ricordi e persino i silenzi si intrecciano in un tessuto che cura non solo il corpo, ma anche l’anima.
In questi racconti si celano frammenti di vita che, condivisi, diventano ponti verso l’altro, capaci di far sentire ogni persona riconosciuta e accolta. È un dialogo intimo, fatto di empatia e presenza, che restituisce integrità e significato anche nei momenti più fragili.
Non è soltanto uno spazio, ma un simbolo di premura. È un rifugio dell’anima, una soglia sospesa tra la vita che si spegne e l’amore che resta.
Dentro queste stanze, ogni azione si trasforma in segno di grazia: un tocco che consola, uno sguardo che accoglie, un sorriso che sfida il dolore, un sussurro che dice “ci sono”, anche quando il buio sembra prevalere. Le corsie sono percorse da angeli in camice bianco, professionisti del corpo e del cuore, che si muovono in silenzio, come se portassero tra le mani il soffio vitale.
A condurre questa meraviglia è un uomo che sembra nato per intrecciare delicatezza e forza: Tommaso Fusaro. Nei suoi occhi c’è il coraggio di chi sa che la malattia non sempre può essere vinta, ma la speranza di un gesto sincero può sempre illuminare il cammino.
È il cuore pulsante di questa realtà, un esempio raro di leadership che si piega per sollevare, che ispira senza mai imporsi.
La casa del sollievo, non è solo un luogo dedicato alla sanità, ma una cattedrale della compassione, una scuola di empatia. È la dimostrazione che anche nelle pieghe più buie dell’esistenza si può intravedere una scintilla di luce, perché il dolore, quando condiviso, si fa più leggero.
Bitonto, troppo spesso descritta attraverso le lenti cupe della cronaca nera, rivela qui un volto luminoso, una capacità di custodire e proteggere l’essenza più profonda della vita. La clinica Aurelio Marena è un dono, un messaggio d’amore che la città offre a chi è costretto ad affrontare il momento più fragile. È un monito silenzioso a non dimenticare che la vera ricchezza non sta nei muri o nei monumenti, ma nelle persone che scelgono di esserci, fino all’ultimo istante.
E allora, in questa dimora che profuma di luce e tenerezza, la nostra terra ritrova il suo orgoglio, non solo per ragioni storiche e artistiche, ma come culla di un’umanità che non si arrende mai, che fa del prendersi cura il gesto più alto di bellezza. Perché, alla fine, nulla è più toccante di una mano che stringe un’altra, nell’attimo in cui ogni cosa sembra svanire. Come scrive Viktor Frankl: “Anche nel momento più difficile, la vita non cessa mai di avere senso. Ogni istante è un’opportunità per scegliere la dignità“.
Può la luce di un faro come questo spingerci a costruire una comunità dove nessuno affronti il buio da solo?