Un racconto lungo di Leonardo Sciascia, “La strega e il capitano” (1986), prende spunto da un passo dei “Promessi sposi” di Manzoni nel cuore della tragica narrazione della peste milanese. Si tratta dell’odissea di una povera donna, Caterina Medici, condannata come strega per questioni ereditarie della famiglia del senatore milanese Luigi Melzi. La triste storia si svolge nella prima metà del Seicento, il secolo della “caccia alla streghe”. Un’appendice a questa squallida e violenta vicenda può essere considerata la disavventura vissuta da Silvia Piccolomini, a Bitonto, nei primi del Settecento (1719), esattamente un secolo dopo quella narrata da Sciascia. Anche in questo caso si ripropone uno schema consolidato per eliminare una persona indesiderata all’ambito familiare: accusata di avere ammaliato la moglie di chi con lei si sollazzava, tale Nicola Domenico Tisci di Cassano, Silvia è coinvolta in una situazione ingarbugliata nella quale si muovono figure e figuri che perseguono meschini interessi. Arrestata e sottoposta ad indagini condotte con sprezzo del ridicolo, la giovane, però, si salva, a differenza della Margherita di cui narra Sciascia. La vicenda è raccontata nel secondo volume della sua “Storia di Bitonto” (pagg. 112 – sgg.) da Luigi Sylos, che dichiara di aver letto le pagine dell’istruttoria processuale purtroppo priva del finale. Gli ingredienti di una classica storia stregonesca ci sono tutti: il sortilegio, la pozione magica, la testimonianza falsa, la metamorfosi della donna in un gatto nero, la moglie tradita, il marito fedifrago, il giudice ottuso, l’amica infedele, lo stregone fanfarone, il segno del diavolo. Questi elementi si sovrappongono al tessuto umano sottostante alla vicenda: la credulità popolare, l’ipocrisia delle classi abbienti, la disperazione dell’umile, la complicità delle autorità, l’incapacità della giustizia di gestire una situazione assurda. Il tutto sullo sfondo di una città, Bitonto, che proprio all’epoca il Pacichelli ritraeva nella sua opera, disegnandone un suggestivo panorama. Nella storia si colgono interessanti scorci di ambiente paesano come la strada, l’attuale via Logroscino, nella quale avviene l’incontro fra la guardia notturna, un certo Vincenzo Morrone, ed una gatta nera che sorprendentemente si trasforma in Silvia, procace ed allettante nella sua nudità. Si consuma un rapporto alle “due ore di notte”, termine temporale che sopravvive nell’espressione dialettale allusiva di un pestaggio violento ma che indica, in realtà, le ore 20,00, ben oltre il coprifuoco obbligatorio all’epoca. Il torrione angioino e la sua cisterna profonda “quaranta piedi napoletani” (si tratta sicuramente di un refuso perché il locale è alto 7 metri, corrispondenti a venti piedi) nella quale si getta, forse per disperazione, Silvia approfittando dei suoi carcerieri distratti. E personaggi come il carrettiere che porta un bel carico di cozze da Taranto in città, a testimoniare l’ininterrotta attività della mitilicoltura della “città dei due mari”. I rapporti fra comuni limitrofi attestati dalla presenza fin troppo attiva di persone di Palo del Colle a Bitonto fra le quali un certo Onofrio, meglio conosciuto come “magarone”, che gode di molto credito popolare. Affiora, pertanto, la miseria di quartieri, in cui si era disposti a tutto pur di migliorare le proprie condizioni di vita, finanche a spacciarsi per “magare” (stregha), col contorno di pregiudizi e morbose tentazioni, che caratterizzano gli inquirenti, per i quali è un chiaro signum diaboli perfino un livido sul gluteo sinistro della ragazza, conseguenza della sua caduta nella cisterna. Ma, soprattutto, emerge inquietante, l’ arretratezza delle nostre contrade dove i sortilegi, le pratiche magiche, gli operatori dell’ occulto, come li definiamo oggi, l’ignoranza abissale spadroneggiavano malgrado si affermassero già la ragione ed il sapere, che, nel giro di poco tempo, avrebbero partorito l’ Illuminismo, segnando una tappa fondamentale nell’evoluzione della civiltà. Insomma, la triste vicenda di Silvia offre uno spaccato di vita reale in netto contrasto con il “si stava meglio quando si stava peggio”, che troppo spesso siamo soliti recitare. A sproposito.