di ANGELO PALMIERI
Un omicidio brutale quello di Thomas Luciani perpetrato da due giovani ragazzi mossi da sprezzo per la vita altrui e vittime pur essi della loro stessa disumanità.
Un terribile episodio che richiama ad una inequivocabile responsabilità collettiva.
Sul palco della vita è andato in scena un efferato prolungato accoltellamento che ha causato uno choc emorragico per lesioni ai polmoni e una rappresentazione di un insensato comportamento segnato da una follia, determinata da un intorpidimento della coscienza che porta alla negazione etica del valore della vita. Ciò che colpisce nella fattispecie dell’evento criminoso è la totale assenza della rappresentazione dell’altro da sé, l’indifferenza con cui si sono compiute le azioni successive all’omicidio, comprare due canne e fumarle al mare, nella più totale noncuranza di quel ragazzino esile lasciato agonizzante per terra, rannicchiato a faccia in giù fra l’erbaccia.
Certamente anche in questa vicenda la causa scatenante è il facile consumo della droga che annega per chi ne fa uso ogni visione del futuro e inesorabilmente sospinge verso viaggi di allucinazione alla ricerca di uno stato ingannevole di beatitudine. Possiamo noi adulti restare incredibilmente immobili ovvero incapaci di provare ad immaginare una qualsivoglia progettualità a forte impatto in grado di riaprire una partita educativa complessa, che diventi efficacemente espressiva di tutta la comunità?
Questa brutta storia di violenza, che ha i contorni di un compiacimento di provocare sofferenza e uccidere un essere umano, rimanda alla necessità di esperire luoghi consistenti e forme di socialità rassicuranti che sembrano venir meno in una dimensione sociale attuale che non esito a definire di “energia pura senza forma”. C’è un altro aspetto nell’omicidio di Thomas che smitizza alcuni luoghi comuni ovvero che il fenomeno della devianza giovanile è sempre più trasversale, non necessariamente riconducibile a contesti particolarmente svantaggiati o a situazioni familiari disfunzionali. Si avverte, invece, sempre più il bisogno di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio di una reale socializzazione in grado di accogliere ombre e domande di senso. Necessita quanto prima arginare, a tutti i livelli di responsabilità e competenza, quel vuoto programmatico che alimenta l’irrefrenabile galoppo del disagio giovanile.
In questa ordinaria follia si inseriscono tematiche sociali inevase che interpellano un mondo adulto, sempre più in panchina, ogni attore sociale abilitato alla costruzione di un “simbolico” capace di mediare pensieri negativi che sovente sfociano in forme di violenza estrema e cieca. Il rapporto tra generazioni appare sbiadito e come evanescente. Da un’adultità non complice possiamo provare ad accogliere a braccia aperte le loro ombre. Se non c’è la prospettiva di poter reperire un senso che giustifichi tutta la fatica che si fa per vivere – a giusta ragione come afferma Galimberti – se questo senso non si dà, se non c’è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora ci si tuffa nella ricerca di quell’anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
La cura è una manifestazione della volontà di educare. È da un suo investimento che dipende il futuro dei nostri giovani. C’è inoltre come affermano autorevoli studiosi un problema di disregolazione emotiva, curiamo troppo il corpo dei nostri giovani e poco l’anima. Decisamente la posta in gioco è alta. Si rivelano importanti le decisioni tempestive, le iniziative coraggiose e responsabili. Caso contrario, inevitabilmente a riprodursi sarà solo il deserto emotivo dei nostri ragazzi nella fregola di mantenere la propria identità anche a scapito del buon senso e del sano equilibrio mentale.
Sappiamo bene come il propagarsi di un sentimento di precarietà inneschi atti inconsci, conflittualità e mutazioni di regole valoriali che rendono irrimediabilmente deboli e sfrangiati i nostri giovani che pur si muovono alla ricerca disperata di radici, parentela, amore e amicizia, mentre sprofondano nella apatia e nell’indifferenza divenute improvvidamente trincee della propria identità.
Non è più possibile tollerare che si sdogani la violenza come scorciatoia naturale per l’affermazione egoistica di un sé disumano e fin troppo disabitato dall’idea del consorzio civile.