Gli ultimi scampoli di vita della scrittrice Anna Maria De Leo – per decenni maestra adorabile di grate generazioni di scolari – sono stati anni di sofferenza, come se non fosse bastato tutto il dolore che le era piovuto addosso in giovinezza. La sua voce – che aveva incantato tutti, persino i carcerati, quando portava loro canoro conforto, nei favolosi Settanta – era diventata tremulo filo, persino il brillio dei sogni s’era quasi fatto fossile in fondo agli occhi, solo l’eleganza era rimasta intatta. Il fintoburbero, ma buonissimo Gianni ne custodiva i passi incerti, illuminandone di carezzevole cura il cammino. Qualche anno fa, viaggiando indietro nel tempo, aveva dato alle stampe “Gelido è l’inverno”, un canto d’amore lacerato, un bellissimo, straziante romanzo epistolare dedicato al giovane marito Nicola Parisi, scomparso mezzo secolo fa, ormai. Io, invece di scrivere la recensione di questo libro che mi conquistò fino alle lacrime, inventai l’ultima lettera da inviare al marito della giovanissima e bellissima Anna Maria. La poetessa Anna Santoliquido l’ha ricordata con queste significative parole: «Cara Angela, il Movimento Internazionale “Donne e Poesia” piange un’anima bella, generosa, ricca di sentimenti. Mi sembra di vederla quando cantava per noi, con la sua dolcissima voce e la passione di un’artista autentica».
Abbracciando con infinito affetto tutti i suoi cari – Lina, Lizia, Mimmo, Pino, Silvana, Gianni, le di lei splendide fanciulle… -, ripropongo qui l’articolo, anche se mi pare di scorgere due sposini sorridere in una luce eterna come di primavera, lassù…
Egregio Signor Nicola Parisi, anche se non l’ho mai conosciuta, so tutto di lei. Persino i tratti somatici mi sono noti, s’immagini: uno sguardo guizzante, due sottili baffetti sparvieri, un volto affilato e, come dire?, quasi nobile. So che si divertiva a colorare i sogni in tele piene di fascino e bellezza, girava il mondo con una telecamera, aveva studiato per vincere il concorso nella sanità e in tv seguiva soprattutto gli interventi chirurgici e le missioni spaziali. Lassù, accovacciato fra una nuvola e l’altra, si starà chiedendo come mai uno sconosciuto come me sia al corrente di tutti questi dettagli e addirittura abbia l’ardire di scriverle. È presto rivelato. Lei ha lasciato quaggiù un vuoto d’amore dentro un cuore che ha distillato le sue lacrime nelle parole che gridano tutto il loro strazio in un libro di dolorosa grazia dal titolo “Gelido è l’inverno”, pubblicato da una casa editrce dal significativo nome, “luce” in greco antico, non a caso. Perché colei che lo ha scritto l’ha amata con la dispeata forza di un cuore bambino, prigioniero di ricordi di giovinezza e felicità, che fanno ancora più male quando tutto viene crudelmente cancellato. Abolito. Distrutto. Come se sul sole del cielo dell’anima una mano, proterva, senza un perché ci calasse un velo di buio lutto e non ci fosse più niente da fare. E così la gioia si fa mestizia. Il bianco, invincibile nero.
Il giorno, perenne notte.
Gli è che l’autrice, da quel maledetto giorno di 44 anni fa, quando un orribile, assurdo, iniquo incidente l’ha rapita da questa terra, non ha mai smesso – sì, le date indicano un decennio, ma nel silenzio del petto c’è l’eternità del sentimento più musicale della storia dell’umanità – di vergare lettere rassegnate, rabbiose, appassionate, svuotate di tutto eppure infuocate di verità e passione. Questo canto d’amore e morte di Anna Maria De Leo – ma so che lei, gentile Nicola, non aveva bisogno che lo scrivessi – è un romanzo epistolare che scava l’anima di chi legge. Perché dentro c’è una vita immolata sull’altare della dedizione assoluta a lei e alla memoria dell’esistenza gioiosa in due, lastricata di condivisioni, progetti, emozioni. Quelle feste di ogni giorno che donano un sorriso sberluccicante al cuore. Fra questi fogli lancinanti di solitudine incontrerà anche sua cognata Lina, che ha fatto per anni da eletta messaggera – essendo poetessa vera, le sarà venuto facile – di novità dal mondo dove lei da allora soffia, scavalcato ormai il muro d’ombra. Ci sono le due piccole Isabella e Nicoletta – “meraviglie, roselline, capolavori”, per la mamma – e la grande che la chiamava papà dinanzi ai quadri oppure posava la sua fotografia sul cuscino ormai deserto e sperava che lei dormisse sereno chissà dove. Infine, il rispettoso, grande Gianni, che ha preso con pazienza antica i cocci del suo passato e li ha posati con garbo accanto a quelli del mosaico infranto di Anna Maria per darle un’altra speranza, sia pur effimera. Perché domani tornerà a sanguinare la ferita immedicabile, nessuno si illuda. Dunque, signor Nicola, sappia che se dovesse scorgere una colomba che, volando lieve nell’azzurro fra gli angeli, proverà a baciarla dolcemente con un’ala, sappia che, in realtà, sarà un libro: questo libro. Sì, so pure cosa vuole che io riferisca ad Anna Maria: che lei, da quelle lande apparentemente lontane ma vicinissime, non ha mai tolto gli occhi dalla sua adorata sposa, dalla casa d’improvviso orba e dalle sue piccole che son diventate splendide donne ormai. Sì, e non dimenticherò pure di dire loro che quelle stille che scintillano sui petali delle rose, al mattino, non sono gocce di rugiada…