Non sappiamo se fu di notte o di primo mattino; il pomeriggio è da escludere perché, di solito, i Grandi non muoiono in quella fase della giornata … ma sembra certo che quel 14 settembre del 1321, a Ravenna, signoria del (pre)potente Guido da Polenta, moriva Dante Alighieri. Moriva di malaria, ci dicono le (poche) fonti a nostra disposizione. Moriva solo, aggiungono, come solo e ramingo era vissuto per gli ultimi vent’anni della sua vita. Moriva povero, concludono, consegnando un ritratto esemplare di personaggio romantico ante litteram ai (tanti!) futuri lettori. Noi ci permettiamo di dubitare di simili testimonianze, che non provengono da autori contemporanei all’episodio, perché ci sembrano molto soggettive, arbitrarie e fuorvianti. Una delle poche attendibili, forse l’unica, è quella di Giovanni Villani, che dedica al suo illustre concittadino un’intera pagina della sua Cronica, in cui ne ammira la coerenza, riassume la vita ed esprime un giudizio lusinghiero, sbagliando però il mese della morte (settembre e non luglio, come Villani riporta in premessa). Tutti gli altri a seguire, a cominciare dal Boccaccio, hanno un po’ ceduto a tentazioni scontate: chi, tornando da Venezia a Ravenna, attraversa zone paludose, giocoforza, contrae la malaria; chi vien sbattuto fuori all’improvviso dalla sua città si ritrova povero in canna; chi vive lontano dal suo ambiente è, per condizione e costrizione, costretto ad una vita solitaria. In realtà, sappiamo che Dante a Ravenna era circondato e rispettato come un maestro ed un caposcuola da tanti amici ed ammiratori, fra cui quel Guido Novello da Polenta, che lo ospitava da qualche anno munificamente, riservandogli addirittura un’abitazione privata. In più, l’Alighieri aveva riunito la famiglia a sé da più di un decennio: tranne la moglie Gemma (che gli sopravvisse per altri vent’anni circa, morendo nel 1342), erano con lui la figlia Francesca, monacatasi col nome di suor Beatrice in un convento di Ravenna, ed i maschi Jacopo e Pietro, che godevano di congrui benefici laici ed ecclesiastici a Verona, grazie all’amicizia del papà con gli Scaligeri, e facevano affari d’oro, comprando terreni e case. Basti pensare all’ investimento più proficuo di Pietro Alighieri, che acquistò nel 1353 per una somma notevole un vasto podere presso Gargagnano di Verona, da cui ancor oggi i suoi legittimi successori, i conti Serego – Alighieri, producono un ottimo Valpolicella, esportato ovunque. Di un altro figlio, inoltre, il primogenito, Giovanni, sappiamo che diede non pochi grattacapi, proprio sul piano economico al famoso genitore, che dovette provvedere di tasca propria a truffe, illeciti, debiti del figlio scapestrato. Ne deduciamo che il Nostro fosse abbastanza ricco anche perché all’agiatezza economica ereditata da un padre bancario e strozzino aveva aggiunto, ancor giovane, la ricca dote della moglie, che, però, era stata penalizzata dal bando emanato contro il marito ed aveva fatto causa al Comune di Firenze (la vinse, dopo decenni, ottenendo rimborso ed indennizzo consistenti). Circa la presunta malaria, quasi uno scotto da pagare per chi attraversava la pineta di Ravenna (ne seppe qualcosa Anita Ribeiro, la moglie di Garibaldi), c’è da chiedersi perché Dante non l’avesse contratta all’andata ma solo al ritorno da Venezia. L’essere morto di questa malattia è una deduzione (arbitraria) di qualche critico zelante (o poco professionale?) perché non ne parla nessuno dei pochi biografi contemporanei dell’Alighieri: nemmeno i figli Pietro e Jacopo nelle loro opere. Il Boccaccio, invece, afferma che il Poeta, verso i 56 anni d’età, improvvisamente infermò ma non parla dell’ ambasceria a Venezia. Infermò, nell’italiano dell’epoca, dovrebbe significare ‘stette malato a letto per alcuni giorni’ e non il semplice ‘s’ammalò’, per noi moderni più logico; il che non collima con il decorso della malaria, cui Boccaccio non accenna, che all’epoca era piuttosto rapido, non esistendo cure adeguate: entro due giorni ti portava alla morte. Comunque sia, Guido da Polenta, il mecenate e protettore di Dante a Ravenna, fece celebrare funerali solenni, cui parteciparono tantissime persone, molte giunte apposta; la bara fu portata a spalla dai nobili ed il corpo deposto in un’arca di pietra presso il convento ravennate dei Francescani in attesa di essere tumulato in un monumento pubblico a spese della Signoria. Il da Polenta, nipote di quella Francesca immortalata nel canto Quinto dell’Inferno, tenne una commossa orazione funebre davanti all’abitazione del Poeta e, nei giorni successivi, raccolse testimonianze, dediche e poesie scritte da tanti intellettuali, che il Boccaccio poté leggere durante il suo primo soggiorno a Ravenna. E tra cui tramandò un epitaffio scritto da Giovanni del Virgilio, uno degli intellettuali più famosi dell’epoca. Che, però, definiva Dante con un titolo piuttosto insolito: teologo. Forse, in velata polemica con quella Chiesa di cui l’Alighieri era stato il fustigatore implacabile.