Ancora una volta, nel 2001, gli italiani furono richiamati al voto, una seconda volta, per esprimersi su un altro referendum. Ma questa volta non era l’ennesimo referendum abrogativo. Quello del 7 ottobre 2001 fu, infatti, il primo referendum costituzionale nella storia dell’Italia repubblicana. Argomento del quesito era la riforma del Titolo V della della Costituzione Italiana, quello che, dall’articolo 114 al 133, disciplina la suddivisione dell’ordinamento italiano nei suoi enti locali. Non si voleva abrogare nulla, ma solo chiedere agli elettori se confermare o meno la cosiddetta legge sul federalismo approvata dal governo il 9 marzo 1999, su proposta del presidente del Consiglio Massimo D’Alema e del ministro per le Riforme istituzionali Giuliano Amato. Una legge, approvata in via definitiva dal Senato l’8 marzo 2001, che, modificando gli articoli contenuti nel titolo V della carta costituzionale, attribuiva più poteri alle regioni.
Quattro erano i pilastri della riforma federalista dell’Ulivo. Il primo verteva sulla la riscrittura dell’articolo 117 della Costituzione, con l’inversione del criterio di ripartizione delle competenze legislative, affidate pienamente alle regioni in tutte le materie non espressamente affidate allo Stato. A quest’ultimo venivano affidati politica estera, difesa e forze armate, moneta e tutela del risparmio e mercati finanziari, tutela della concorrenza, perequazione delle risorse finanziarie, giurisdizione, referendum statali, ordine pubblico, sicurezza federale. Per le restanti la competenza viene affidata alle Regioni, beneficiarie di maggiori poteri in tema di istruzione, ambiente e giudici di pace. Il secondo pilastro voleva realizzare un regionalismo differenziato per riconoscere a certe regioni maggiore autonomia. Il terzo pilastro puntava a sopprimere molti istituti di impronta centralista ancora presenti in Costituzione. Con il quarto, infine, si voleva introdurre l’autonomia finanziaria in base alla quale ogni regione può sostenersi con proprie risorse. A comuni, province, città metropolitane e Regioni era concessa una “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, pur nell’impossibilità di tagli delle entrate statali. Tra le altre modifiche, l’introduzione nella Costituzione della promozione della parità d’accesso tra donne e uomini alle cariche elettive e l’istituzione in ogni regione del consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione tra regioni ed enti locali.
A votare, in tutta Italia, fu il 34,10% degli aventi diritto, ma, non essendoci alcun quorum, come per i referendum abrogativi, la consultazione fu valida a tutti gli effetti. Votò favorevolmente il 64,20%, contro il 35,80% dei contrari. A Bitonto fu il 33,98% a votare e il 62,34% si espresse favorevolmente. La legge costituzionale 3/2001 fu, quindi, promulgata dal Presidente della Repubblica il 18 ottobre 2001, fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 24 ottobre ed entrò in vigore l’8 novembre 2001.
«Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e di serietà. Nonostante la grave situazione internazionale e la scarsa informazione, gli italiani hanno deciso di convalidare la modifica della Costituzione voluta dall’Ulivo» fu l’immediato commento di Francesco Rutelli subito dopo la vittoria del sì che, per l’allora parlamentare della Margherita, era una vittoria sul progetto di devolution della Lega Nord di Umberto Bossi: «Né secessione né centralismo, ma un federalismo equilibrato: da stasera il proposito distruttivo e confuso di Bossi non ha più ragion d’essere».
Ma, dopo tanti anni, dallo stesso centrosinistra si sono sollevate varie voci critiche su quella riforma che avrebbe fornito pericolosi precedenti e avrebbe indebolito la coesione tra le regioni più ricche e quelle più povere, a vantaggio delle prime.
«Fu approvata con soli tre voti di maggioranza e con un referendum confermativo che ebbe un quorum del 34%. È una riforma scritta male, figlia non di una discussione, ma della volontà di recuperare qualche voto al Nord» fu la riflessione di Giovanni Procacci in un convegno organizzato dall’Anpi nel 2019, in vista di un ennesimo progetto di autonomia differenziata.
«Ci troviamo in una situazione imbarazzante, perché la destra ha tratto vantaggio dalle politiche del centrosinistra» aggiunse l’ex senatore ed europarlamentare, accusando le gravi responsabilità sia del governo Gentiloni (2016-2018), in merito alla proposta di riforma di quell’anno, sia del governo Amato, in carica nel 2001, quando fu varata la riforma del Titolo V. Gravi responsabilità, secondo Procacci, per aver preso decisioni importanti sul finire della legislatura, in campagna elettorale, contribuendo a minare il ruolo del Parlamento e fornendo un pericoloso precedente. Ma questa è storia più recente, sulla quale ci ritorneremo.