Un mattino di primavera che sa d’estate – il cielo non è mai stato così puro, il sole indora palazzi e strade, rare le ombre salvifiche -, può capitare di imparare nuove declinazioni dell’amore.
Studenti si scambiano motteggi infantili, all’uscita da scuola, giovani brindano con uno spritz a un domani sempre più incerto, mamme sbuffanti spingono passeggini più pesanti di quel che appaiono, uomini chiusi nella loro nuvola di pensieri ripassano quel che hanno da acquistare.
Insomma, mentre l’umanità è alle prese con i suoi mille affanni, sul tavolo di un pub va in scena la storia. Giunge l’eco festosa di un popolo vociante sopra spalti gremiti di vita di uno stadio dal nome antico e vincente, scarpini che affondano nell’erba di smeraldo, madida di pioggia, l’uomo vestito di nero che fischia ed è legge, l’allenatore seduto in panchina che urla indicazioni non si sa bene a chi.
Eppoi, le maglie: reliquie di sogni bambini. Da uno zaino bello come una macchina del tempo, Michele Frascati, zazzeruto cinquantenne di professione sognatore, le tira fuori carezzandole dolcemente, quasi fossero figli. Di lanetta, quale che fosse la stagione e mica una a partita, i numeri cuciti a mano dietro la schiena, i pantaloncini cortissimi e stretti, persino le piccole modifiche artigianali con provvide forbici per limare colletti e sgambature. “Sono dei Campionati ’74-’75 e ’75-’76, ero piccolissimo. Sono due sacre reliquie per me che sono ancora un romantico, perché per me il tifo vero che è amore. Sì, rappresentano una storia andata a buon fine“, sussurra quasi con pudore, Michele.
E brillano gli occhi e trema il cuore, mentre solca felice il mare dei ricordi, sulla rotta dei valori ultras, codice etico chiaro e inviolabile. E racconta la sua opera certosina, a mezza via fra filologia e archeologia. Perché mica è facile constatare la purezza di quei cimeli. Ancor di più cercarli per tutto il globo e rintracciarli, immane, gioiosa fatica. Polpastrelli, sguardo, affetto e memoria sono i giudici insindacabili. Tutto è dipinto di biancorosso, i colori della passione atavica: la Bari.
Già, perché mentre snocciola il disegno di casacche memorabili, sfilano i giocatori con i loro volti e le loro prodezze. A guidarlo in questo universo fantastico, Vincenzo, amico di curva, cioè fratello, poi partito in Germania. E il fiuto per questi capi d’abbigliamento preziosissimi: vestiti da capitan Arduino Sigarini, rossa con risvolti bianchi e quella di Diego Giannattasio, l’esatto contrario. Cerca, scava e incontra, Michele, fino a collezionarne più di cento, in un armadio che è una cripta, che neppure la consorte disperata e simpaticissima Milena può schiudere. Su quelle grucce disposte in fila come calciatori prima di una partita, sembrano correre e respirare ancora Pietro Maiellaro e Giovanni Loseto, Sandro Tovalieri e Igor Protti, Rachid Neqrouz e Lorenzo Amoruso, Nuccio Barone e Marcello Montanari: “Quasi tutti amici, ai quali non ho mai chiesto nulla, perché sono un ultras“.
All’improvviso, per soprammercato, la chicca: sul desco si posa d’incanto l’azzurro della Nazionale, che, forse, fu di Sandrino Mazzola sul prato mitico dell’Azteca. Infine, con delicatezza antica, ripiega le maglie e le riposa nella sacca: “Ma che belle…“, sospira Michele, credendo di non essere ascoltato. Saluta con fierezza e va via col passo leggero del sognatore che ama i colori biancorossi…