1999. Si torna a votare per l’ennesimo referendum destinato a non raggiungere il quorum del 50% più uno degli elettori. L’ennesimo referendum fallito. L’appuntamento elettorale è il 18 aprile. Si vota per l’abolizione della quota proporzionale prevista dalla legge elettorale nata dopo i referendum del ’91 e del ‘93. Legge che, pur introducendo un sistema elettorale maggioritario, manteneva un 25% di seggi assegnati con sistema proporzionale.
Un quesito che nasce dal fallimento della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, chiamata comunemente “Bicamerale”. Fu istituita due anni prima, nel febbraio ’97, ed era composta da 35 senatori e 35 deputati, con presidente il segretario del Pds Massimo D’Alema, eletto con 52 voti su 70 e l’appoggio di Forza Italia e dei centristi del Polo. Vennero eletti tre vicepresidenti: Leopoldo Elia (Ppi), Giuliano Urbani (Fi) e Giuseppe Tatarella (An). Fu istituita per redigere un testo di riforma che fu votato il 30 giugno e che proponeva riforme riguardanti forma di Stato e di governo. Ma la Bicamerale, durante la sua attività, incontrò ben presto numerosi ostacoli. A partire dalla formazione e il disfacimento di assi inediti fra partiti di destra e sinistra. Ma a decretarne il fallimento fu Silvio Berlusconi che il 1º febbraio 1998 ribaltò la posizione assunta fino a quel momento, avanzando la richiesta di cancellierato e proporzionale e, quindi, rovesciando il tavolo delle trattative. Una decisione che fece venir meno le condizioni politiche per il prosieguo della discussione, tanto che, il 9 giugno, con nota ufficiale, il presidente della Camera Luciano Violante annunciò la definitiva morte della commissione.
«La Bicamerale è morta. Sia chiaro che non è né un suicidio né un ictus. È un omicidio e l’assassino si chiama Silvio Berlusconi» fu l’accusa di Fabio Mussi dei DS su Repubblica del 10 giugno ’98. Accusa a cui Berlusconi rispose, sullo stesso quotidiano: «Ho sentito che qualcuno vuole farmi un monumento. Credo che sia un titolo di assoluto merito avere evitato cattive riforme. Quindi se qualcuno mi sta costruendo un monumento lo ringrazio».
E non era solo Berlusconi ad avversare la riforma avanzata dalla Bicamerale. Per il giudice Gherardo Colombo la Bicamerale era “figlia del ricatto” come la definì in un’intervista al Corriere della Sera del 22 febbraio 1998 attirandosi numerosissime critiche dal centrodestra e dal centrosinistra.
Fallita la Bicamerale, sorsero due comitati con l’obiettivo di arrivare definitivamente alla riforma del sistema elettorale maggioritario. Uno era stato istituito da Mariotto Segni (l’ideatore dei referendum dei primi anni ’90) e da Antonio Di Pietro, mentre l’altro l’iniziativa autonoma della Lista Pannella.
Il 18 aprile 1999, quindi, si arriva al voto. Alla consultazione partecipano solamente il 49,6% degli elettori con una larga maggioranza a favore del Sì (91,5%). Maggioranza che, ovviamente, non è sufficiente a superare il quorum. Se pur di poco, il quorum fu superato, invece, a Bitonto, dove si recò alle urne il 51,64% degli aventi diritto, di cui fu a favore del Sì il 92,7%. I sostenitori del No preferirono l’astensione ad una sfida che probabilmente avrebbe visti perdenti.
Commentando i risultati del referendum, il “da Bitonto” volle lanciare una sua proposta di riforma elettorale negli interessi delle comunità locali: «Possono essere candidati per un mandato politico e di rappresentanza dei cittadini a qualsiasi livello, da quello comunale e quello parlamentare, nelle due camere, tutti i cittadini nati o residenti da … anni(tempo da determinare) nei comuni interessati alla consultazione elettorale. Eviteremmo che tanti politici di professione vadano a scippare voti nei cosiddetti collegi facili. Quei politici, così come rilevato tante volte, dimenticano spesso i propri elettori perché sono in altre faccende affacendati».
Una proposta che risentiva del clima antipolitico di quegli anni che avversava la politica di professione.