Nel 1995 non si votò solamente per il consiglio provinciale e quello regionale. A distanza di sole sette settimane, l’11 giugno si tornò alle urne per un nuovo appuntamento con la cabina elettorale. Gli italiani furono infatti chiamati ad esprimersi su 12 referendum abrogativi.
Ad essi, si sarebbe dovuto aggiungere anche un pacchetto di referendum incentrati su una nuova proposizione dei quesiti abrogativi delle leggi elettorali di Camera, Senato e Comuni. Furono proposti dal Movimento dei Club Pannella-Riformatori dopo la legge elettorale “Mattarella” approvata dal Parlamento (detta anche “Mattarellum”). Per i radicali, «le leggi elettorali approvate dal Parlamento “hanno tradito lo spirito – e per lo più anche la lettera – del referendum”» sostenevano i radicali che, in quell’occasione, proponevano anche una serie di altri referendum che miravano ad eliminare i residui di proporzionale: «Anziché realizzare un rigoroso sistema uninominale maggioritario anglosassone e aprire la strada a quell’autentica logica democratica espropriata da quarant’anni di partitocrazia, le nuove leggi contengono una serie di complicati marchingegni che consentono il rilancio del vecchio regime, sotto diverse spoglie».
Ma questi referendum furono bocciati dalla Corte Costituzionale servizio sanitario nazionale e cassa integrazione straordinaria.
I radicali chiedevano un referendum anche sulla legge elettorale 81/93, «per estendere a tutti i comuni (come già chiedeva il precedente quesito referendario eluso dal Parlamento) il sistema maggioritario attualmente previsto per i comuni fino a 15 mila abitanti».
Altro obiettivo riguardava la lotta a statalismo, “sindacatocrazia” e partitocrazia, per «un’economia non statalizzata e un capitalismo di mercato non familistico insieme a partiti politici e sindacati finanziati da cittadini e giuridicamente responsabili delle loro risorse».
Quesiti referendari che, per i promotori, imponevano tutti «un’opzione fra destatalizzazione e assistenzialismo, fra tutela della dignità del cittadino-contribuente-consumatore-utente e mantenimento dell’attuale parastatalismo (e collateralismo con il regime politico), fra transizione verso regole nuove e mero nuovismo all’interno della vecchia logica assistenzialista che ha generato corruzione e inefficienza».
Quella che volevano i radicali era una sorta di “rivoluzione liberale”, che avrebbe riguardato anche l’informazione, con l’abolizione dell’ordine dei giornalisti e l’eliminazione della pubblicità per la Rai. Si puntava, inoltre, ad una «giustizia non soggetta a condizionamenti politici e di corporazione e magistrati indipendenti e responsabili, è fondamentale per un progetto di riforma democratica».
Battaglie referendarie che, in quella fase della politica italiana, vedevano come diveniva il principale interlocutore delle battaglie radicali, per «una vera repubblica democratica, liberale, federale».
Così recitava l’appello di Forza Italia e dei riformatori di Pannella: «L’Italia sta purtroppo riscontrando che il vecchio sistema dei partiti non è morto, tende a riaffermarsi, torna ad inchiodare il paese a risse di fazioni, anziché unirlo democraticamente in grandi, unificanti confronti sulle grandi scelte sociali, economiche, istituzionali, internazionali. È ora di compiere le scelte importanti fra i tanti modelli possibili di sviluppo della nostra società e del nostro Stato. Il modello anglosassone-americano, presidenzialista, federale, democratico, con grande forza del Parlamento federale e di quelli regionali, con l’elezione uninominale, maggioritaria, ad un solo turno del Parlamento, è quello che noi abbiamo ora insieme scelto e che proponiamo per subito ai democratici di ogni origine e ispirazione politica».
Una collaborazione destinata ad esaurirsi a causa di Berlusconi che, per i radicali, non mantenne gli impegni assunti e non impegnò il suo partito nella campagna referendaria.
Ma torniamo ai quesiti che, se pur con un calo vistoso dell’affluenza, raggiunsero tutti il quorum. Il primo dei quali era per la liberalizzazione delle rappresentanze sindacali e l’abolizione del monopolio confederale o, meglio, l’eliminazione totale dei limiti per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali. Era promosso non dai radicali, ma da SLAI Cobas e Rifondazione Comunista e chiedeva l’abrogazione di parti della legge 300/1970, relativa alle norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.
Se pur di poco, vinsero i contrari all’abrogazione. Il No si attestò al 50,03%, mentre il Sì al 49,97%. Non fu così al Bitonto, dove, invece, i risultati registrarono l’opposto: i Sì furono il 50,42%, i No il 49,58%.
Sempre dagli stessi erano proposti il secondo e il terzo quesito. Il secondo riguardava le rappresentanze sindacali nella contrattazione pubblica e chiedeva la modifica dei criteri di rappresentanza a vantaggio delle organizzazioni di base. In particolare, si chiedeva l’abolizione parziale dei limiti per la costituzione di rappresentanze sindacali. Qui, con un distacco maggiore, vinsero i proponenti. Il Sì ottenne il 62,14%, mentre il No si fermò al 37,86%. Più o meno lo stesso da noi (Sì al 59,84%, No al 40,16%).
Il terzo quesito toccava la contrattazione collettiva nel pubblico impiego e chiedeva l’abrogazione della norma sulla rappresentatività per i contratti del pubblico impiego, per abolire i poteri attribuiti al presidente del Consiglio per stabilire quali fossero le confederazioni e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Anche qui abrogazione fu. Il Sì raggiunse il 64,48%, il No il 35,32% (Bitonto: Sì 62,14%, No 37,86%).
Il quarto, il quinto e il settimo quesito erano proposti dai Radicali e dalla lega Nord. Il quarto voleva l’abrogazione della norma che stabiliva il potere del procuratore nazionale antimafia di ordinare il soggiorno cautelare per gli imputati di reati di mafia. Si trattava dell’imposizione dell’obbligo di soggiornare in una località ristretta, stabilita dal tribunale, per un certo periodo di tempo sotto la vigilanza delle forze di polizia italiane.
Fu bocciato dal referendum che vide la vittoria del Sì con il 63,68%, contro il No al 36,32%. Non fu così a Bitonto, dove i contrari (50,04%) superarono di qualche voto i favorevoli (49,96%).
Il quinto referendum, sull’abolizione della concessione del servizio pubblico esclusivo alla Rai, per rendere possibile un’eventuale privatizzazione, vide l’appoggio della maggioranza dei votanti, il cui 54,90% fu per il Sì, a fronte del 45,19% per il No. Esattamente l’opposto a Bitonto (Sì 54,08%, No 45,92%).
Il settimo, poi, voleva l’abrogazione della norma che impone la contribuzione sindacale automatica ai lavoratori. Anche qui i proponenti vinsero con il 56,24%, contro i contrari al 43,76%.
Dai soli radicali erano proposti i quesiti 6, 8 e 9. Il 6 era per l’abrogazione della norma che sottopone ad autorizzazione amministrativa il commercio. Si chiedeva l’abolizione dei poteri del comune in materia di pianificazione della vendita al pubblico. Qui i proponenti persero significativamente, fermandosi al 35,63%, contro i contrari al 64,37% (Bitonto: Sì 30,92%, No 69,08%).
L’ottavo quesito riguardava la legge elettorale per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e l’estensione ai Comuni più grandi dell’elezione diretta del sindaco già prevista per i piccoli. Non passò, fermandosi al 49,40%, ma, di poco, i favorevoli furono in maggioranza a Bitonto (50,76%).
Il 9 invece vide la netta affermazione del fronte del No. Voleva l’abrogazione della norma che impedisce la liberalizzazione degli orari dei negozi. Il sì si attestò al 37,40% (a Bitonto al 28,86%).
Gli ultimi tre quesiti erano proposti da esponenti di alcune associazioni di volontariato, ambientaliste e di promozione culturale come. il Mo.V.I. (Movimento di Volontariato Italiano), Legambiente, ACLI e ARCI; i primi firmatari e presentatori furono i segretari nazionali o i presidenti di queste associazioni.
Il 10 chiedeva l’abolizione della possibilità di essere titolari di più di una concessione televisiva nazionale. Bocciato anch’esso con il solo 43,07% dei Sì (a Bitonto il 34,29%).
L’11, poi, voleva l’abolizione della possibilità di inserire messaggi pubblicitari durante film, opere teatrali, liriche o musicali. Solo il 44,34% era d’accordo (il 35,82% a Bitonto).
L’ultimo quesito, infine, voleva l’abolizione della possibilità che imprese di pubblicità private o pubbliche raccogliessero pubblicità per tre reti televisive nazionali, ivi comprese quelle dei soggetti che le controllano. Anche qui i Sì non furono la maggioranza sia a livello nazionale (43,59%) che a Bitonto (35,10%).