1° settembre 2020. Ore 21. Gli equipaggi di due pescherecci di Mazara del Vallo furono arrestati dalla polizia libica e condotti in una caserma di Bengasi, città costiera ad est della Libia. A bordo, italiani, 6 tunisini, 2 indonesiani e 2 senegalesi. L’accusa fu di aver violato le acque territoriali del paese nordafricano pescando a circa 34 miglia da Bengasi, nel golfo della Sirte. I pescatori erano all’interno di quella che i libici ritengono essere un’area di loro pertinenza, in base a una convenzione stipulata fra Libia e Turchia nel 2009, che prevede l’estensione della Zona economica esclusiva (Zee) da 12 a 74 miglia. Secondo il diritto internazionale, infatti, lo stato costiero ha diritto esclusivo di pesca non solo nelle sue acque territoriali (estese appunto per 12 miglia), ma anche nella Zee.
Seguirono 108 giorni di prigionia, nella Libia Cirenaica, la parte del paese roccaforte del generale Khalifa Haftar. Quasi quattro mesi di violenze fisiche e psicologiche, mortificazioni, minacce, finte esecuzioni.
A raccontare la loro storia, nei giorni scorsi a Mariotto, in un evento organizzato dal Centro Sociale dell’Anziano, Catia Catania, blogger e autrice, insieme a Giuseppe Ciulla dii “La Cala – Cento giorni nelle prigioni libiche”, edito da Bompiani.
A presentare l’autrice, Vincenzo Fiore, redattore di Screp Magazine, Aniello Sannino, presidente del Centro Sociale dell’Anziano, e Piero Ricci, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia.
«I pescatori si trovavano lì per pescare il gambero rosso, che si trova proprio in quei fondali. Si tratta di un crostaceo molto pregiato e i pescherecci si sono specializzati in questo tipo di pesca» ha spiegato l’autrice, sottolineando che si trovavano in acque in cui si era da sempre pescato: «Per loro erano acque internazionali, mentre per la Libia sono diventate nel 2005 acque territoriali, con la proclamazione della Zona Economica Esclusiva che si estende quasi fin sotto Malta. Quindi i pescatori dove dovrebbero andare a pescare? È come se la Libia avesse sottratto alla pesca gran parte del Mar Mediterraneo, che è diventato così un mare troppo stretto».
«Non è una questione legata alla pesca, perché i libici non hanno una grande tradizione legata a questo settore. Il gambero rosso, se non pescato dagli italiani, resta lì e non viene pescato da nessuno» ha evidenziato la blogger, spiegando che è una situazione legata al caos imperante in Libia, «una polveriera, in cui non c’è un governo unico e c’è una guerra in atto. Quindi il sequestro dei 18 pescatori fu una ritorsione nei confronti del governo italiano, per dare a Roma una lezione».
Catania ha raccontato dei maltrattamenti e delle violenze che, in alcuni degli sfortunati protagonisti della vicenda, hanno comportato conseguenze permanenti nella psiche e nel corpo. Ha raccontato della loro convivenza con prigionieri provenienti da ogni dove e di tutti i tipi, dai prigionieri politici: «Le carceri libiche non sono come le nostre. Sono dei lager. Erano costretti a vivere con scarafaggi e altri insetti, mangiando cibo di scarsa qualità. Uno di loro era anche diabetico e, non ricevendo farmaci, ha perso un piede e la vista da un occhio».
Ha raccontato anche del tentativo di incastrare i pescatori costruendo una falsa accusa di traffico di droga e tentando di estorcere la confessione ad uno dei membri tunisini dell’equipaggio, promettendo il rilascio suo e del padre malato. «Ma lui non ha mai tradito i suoi compagni» ha aggiunto l’autrice, sottolineando come quella narrata tra le pagine sia anche una storia di amicizia e di lotta. Lotta anche da parte delle donne di Mazara che si sono battute per sollecitare l’azione governativa e favorire il rilascio dei pescatori.