Sono iniziati i festeggiamenti per i settant’anni della televisione italiana, uno strumento di comunicazione ormai sempre più obsoleto e snobbato, soprattutto dai giovani. In realtà, si tratta dei settant’anni della RAI, la TV di stato, e non della televisione, inventata altrove molto prima del 1954 (anche se in Italia s’era tentato, sul finire degli anni Trenta, di avviare trasmissioni televisive sperimentali). Sono celebrazioni un po’ strane perché di solito gli anniversari cadono di venticinque in venticinque anni, per cui i festeggiamenti ce li aspettavamo per il 2029, quando di certo li ripeteranno. Ed anche un tantino pretenziose quando ricordano con enfasi eccessiva programmi come “Non è mai troppo tardi”, condotto dal famoso maestro Alberto Manzi. Che si dice abbia contribuito a sconfiggere l’analfabetismo delle classi basse, consentendo a circa un milione e mezzo di persone (perlopiù adulte) di ottenere la licenza elementare negli otto anni di programmazione (1960/68) e in quasi 500 puntate. Ora, nessuno ha intenzione di negare l’apporto che una trasmissione televisiva del genere, fiore all’occhiello della Rai democristiana, abbia dato nella lotta all’analfabetismo ma sia permesso ritenere po’ eccessivo il numero di quanti si sostiene abbiano conseguito la licenza elementare (un milione e mezzo di adulti!) grazie al programma suddetto. Soprattutto se pensiamo che molto difficilmente gente umile, di ritorno da lavori piuttosto faticosi, avesse veramente voglia di istruirsi accendendo un televisore. Che nelle loro case non c’era, considerati i costi proibitivi dell’apparecchio. Del resto, gli unici dati ufficiali a riguardo sono quelli forniti dalla stessa Rai per la quale circa 35.000 adulti conseguirono la licenza elementare nel primo anno di programmazione (1960/61). Poi, null’altro. Neanche come venissero rilasciate le licenze, che anche all’epoca si potevano ottenere solo superando esami in sedi istituzionali preposte. Comunque, un numero ben lontano da quello sbandierato con una certa faciloneria, che suona offensiva per chi, come le migliaia di insegnanti dei corsi serali e delle scuole popolari, ha lavorato sodo nella lotta all’analfabetismo, spesso raggiungendo località lontane con mezzi di fortuna, se non a piedi o in bicicletta; affrontando intemperie e situazioni pericolose; trascorrendo pomeriggi e serate lontano dalle famiglie; inventandosi le strategie didattiche più adatte; lavorando in condizioni molto precarie nelle quali non c’erano nemmeno i banchi. Insomma, gente che non disponeva di un accogliente studio televisivo, di strumentazioni e tecniche innovative, di un gruppo di supporto, di auto e telecamere, di microfoni e lavagne luminose, e men che meno di truccatori e parrucchieri. Sui quali insegnanti però è calato il sipario mediatico delle celebrazioni attuali sempre aperto invece sull’insegnamento a distanza, la cui “efficacia” abbiamo da poco testato, costretti dal COVID. In fin dei conti, però, se un merito notevole si deve riconoscere alla RAI è aver prodotto, in quegli anni Sessanta, pregevoli sceneggiati televisivi, che portarono nelle case degli Italiani opere letterarie famose, determinando un effettivo innalzamento del livello culturale nazionale. Preferiremmo, quindi, che si ricordassero questi programmi, che hanno contribuito ad educare milioni di persone, spesso prive di istruzione ma affascinate da una cultura, quella letteraria, per la quale la televisione contemporanea sembra abbia sviluppato una incurabile avversione.